piacentini

Con I «Piacentini». Storia di una rivista (1962-1980) (Edizioni dell’Asino, pp. 226, 10 euro), Giacomo Pontremoli ci consegna una ricostruzione storico-critica minuziosa e utile delle vicende editoriali e culturali legate a uno dei periodici di sinistra più noti e importanti del secolo scorso.

SFILANO come presenze decisive i nomi di Fortini, Solmi, Cases, Panzieri, Timpanaro, accanto ai condirettori e fondatori del progetto editoriale, Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi e Goffredo Fofi. Pontremoli ricostruisce con cura le discussione interne alla rivista. le torsioni dialettiche e le dispute dialogiche di quella stagione, in cui, per forza di cose, il confronto sul Sessantotto gioca un ruolo-chiave: sono, infatti, quelle dedicate ai moti studenteschi e alle loro ripercussioni politiche le pagine più avvincenti del testo, in cui il lettore può assistere alla forza di una critica in atto, all’apertura di direzioni percorse o messe da parte.

La misura del lavoro di Pontremoli sta nel rendere la dimensione politica dei discorsi e delle argomentazioni.

Leggendo i contributi di Fortini e altri, non si può non sperimentare una sorta di inestimabile distanza dal presente: immaginazione e veemenza teorica, capacità di politicizzare la scrittura, attenzione non edonistica nei confronti dei prodotti artistici, costante rinvio a una prassi mai vissuta come rimando retorico – ecco, viene da chiedersi se tutto ciò non sia oggi disperso e se non valga la pena apprendere da quella stagione semplicemente una lezione di metodo e di stile.

CERTAMENTE i Quaderni piacentini sono un riflesso delle tensioni politiche e culturali di quegli anni. Ma anche un doloroso documento di quel drammatico passaggio agli anni Ottanta, al culto del privato, di cui lamenta Bellocchio proprio nell’aprile del 1980, e verso il quale la sinistra ha sperimentato un vuoto di elaborazione critica. Da questa prospettiva diventa interessante leggere oggi, a freddo, l’esperienza della rivista come documento delle traiettorie teoriche e politiche della sinistra: comprendere, cioè, quali riferimenti siano divenuti egemoni, quali invece tenuti da parte, persino quali eccessive aperture culturali si siano rivelate un’arma a doppio taglio per la riflessione politica. Non bisogna dimenticare, del resto, che i Piacentini furono il luogo di una curiosità intellettuale onnivora, e in virtù di ciò la sede adatta a leggere le dinamiche politico-culturali extranazionali, le strade aperte dal socialismo latino-americano o dalla rivoluzione culturale cinese.

A PONTREMOLI va dato atto di aver restituito al lettore, con grande onestà storica, un quadro problematico su cui riflettere, senza escludere l’utilissimo «indice degli indici» posto in appendice. Si può constatare che, a distanza di cinquant’anni e più dall’inizio di quella esperienza, si faccia fatica oggi a trovare sedi in cui il dibattito militante incontri una direzione politica condivisa?

LE DIVERSITÀ emergevano anche allora, e le modalità con cui si esprimevano davano il polso di un contesto in cui la discussione, anche accesa, generava nuove posizioni e nuove visioni della realtà. Che i Piacentini abbiano chiuso le ostilità al sopraggiungere di un’epoca di nichilismo culturale realizzato, è forse anche un segno di rispetto culturale: le riviste chiudono quando non hanno ragione d’essere, quando hanno bisogno di mutare pelle per sentirsi all’altezza dei cambiamenti.