Mentre scriviamo l’unica certezza è che le povere vite di una ragazza e di due bambine, le sorelle Elisabeth, Francesca e Angelica Halinovic, sono ormai cenere. Unico residuo delle loro esistenze bruciate nel camper incendiato nella zona di Centocelle dove vivevano con la loro famiglia composta dai genitori e da ben 11 figli. Troppo presto per capire il movente di questo omicidio, commesso con il lancio di una molotov e però davanti ad un centro commerciale munito di videotelecamere.

Troppo presto – e già gli inquirenti lo escludono – per dire che il criminale sia stato mosso dall’odio xenofobo per i rom, tanto da fare ricorso ad un rituale plateale quanto sprovveduto; oppure se si tratta di un balordo mosso da risentimento o vendetta magari all’interno della stessa comunità rom, perché la famiglia delle ragazze uccise denuncia di essere stata intimidita. Certo non è lo stesso episodio di soli sei anni fa quando sempre a Roma, a Tor Fiscale, morirono quattro bambini in un rogo dentro un campo Rom, provocato da una stufetta.

Ma sono troppi ormai gli «incidenti», una vera litania, che ci costringono a commentare queste morti nei luoghi della esclusione sociale che qualcuno preferisce definire – ieri le agenzie italiane lo ripetevano – «ambienti nomadi».

Costringete alla chiusura e ghettizzazione un gruppo sociale che avete etichettato come diverso, sporco, dedito al furto, quasi etnicamente connotato per il malaffare; obbligatelo alla promiscuità interna senza collegamenti con il mondo esterno, alla marginalità. Ecco che questo stigma sociale diventerà esso stesso la motivazione del misfatto che si consuma. È quello che accade ai Rom in tutta Europa. Come dimenticare che l’ex premier francese Valls aveva costruito la sua fortuna elettorale pochi anni fa sulla cacciata da Parigi dei Rom. Una fenomenologia europea che rappresenta uno dei segnali, per tutti, della mancata integrazione sociale. Perché i rom sono stati cacciati dai luoghi d’insediamento storico, Slovacchia, Repubblica ceca, Bulgaria, ex Jugoslavia.

E, pur non avendo mai fatto guerra a nessuno, sono stati costretti di nuovo alla fuga per salvarsi, a quel «nomadismo» che lombrosianamente i luoghi comuni della xenofobia vogliono ogni volta attribuirgli, come fosse una «caratteristica» stampata sulla loro pelle e nel loro sangue.

Non è così invece. Alla loro stanzialità e sicurezza essi attendono ogni giorno, relegati però nei «campi», nella «emergenza» delle nostre società. Il progetto d’integrazione abitativa e prima ancora la scolarizzazione dei bambini rom, dovrebbero appartenere ad un programma progressista di svolta negli insediamenti urbani e in tutta Italia. Non è così. Anzi, spesso è proprio il contrario, con gli ultimi «nostrani» che si rivoltano, aizzati dall’estrema destra razzista, a ricacciare i nuovi esclusi ancora più sotto. Poco prima o appena dopo i rifiuti urbani, la monnezza.

La retorica dunque non serve, né è utile rinnovare gli stessi, improduttivi interventi fin qui realizzati. Occorre anche una rivoluzione culturale. Pensate che effetto farebbe – proponeva Leonardo Piasere nel suo recente e bel saggio «L’antiziganismo» – se mettessimo la parola «ebreo» al posto delle parole «zingaro» «rom» o «nomade», e per un popolo che ha subìto con il Porajimos lo stesso sterminio nazista. Che effetto farebbe dunque sentir parlare di «Piano ebrei», del «Centro raccolta ebrei» e del «vilaggio attrezzato per ebrei».

Serve, com’è accaduto ieri a Centocelle, vicino Via Gordiani – in una zona a memoria almeno «pasoliniana», che lavora ed è attiva sull’integrazione – la reazione emotiva e politica degli abitanti che hanno visto consumarsi la tragedia vicino casa, sotto le loro finestre.

Portano in tanti bigliettini e lettere di commiato e di dolore; e hanno scritto uno striscione, forse tardivo, ma vero e necessario: «Sono morti del quartiere».