Tra quattro anni il mondiale si sposta in Russia e già si parla di possibile revoca dell’assegnazione. Un motivo sta nella crisi ucraina. Dei senatore americani hanno scritto alla Fifa, segnalando che, vista l’annessione della Crimea, non è opportuno permettere a Mosca di ospitare la kermesse. Difficile che la cosa venga presa in considerazione. Un’altra ragione è la corruzione. Si dice che russi e qatarioti si sarebbero comprati l’organizzazione delle prossime due edizioni (al paese arabo quella del 2022), decisa in un’unica soluzione. La faccenda sta tenendo banco.

In attesa di capire come andrà a finire, premesso che gli interessi commerciali in ballo sono tanti e tali da indurre, si presume, a non fare marcia indietro, ci si può concentrare sul calcio giocato o meglio, che si giocherà. La domanda è se la nazionale russa, nel 2018, potrà graffiare e stupire. L’ultimo risultato di rilievo colto dal calcio moscovita in un campionato del mondo risale all’epoca sovietica. Quarto posto nel 1966. Poi il nulla.

Sul terreno continentale il ruolino è migliore, ma anche in questo caso, al di là della semifinale agli europei nel 2008, se si vogliono vedere i trofei in bacheca a Mosca bisogna tornare nuovamente ai tempi sovietici. Una vittoria e due secondi posti tra il 1960 e il 1972. Ancora una volta secondi, nel 1988, agli ordini del colonnello Lobanovsky. Mise su l’ultima, grande scuola calcistica dell’est. Ma il laboratorio era a Kiev, non a Mosca. I suoi campioni erano ucraini, non russi. Questa comunque è una storia vecchia.

Attualmente il calcio russo vive un paradosso. Negli anni post-sovietici gli investimenti nel pallone sono stati pesanti, ma non hanno formato una classe di campioni. La tendenza è stata quella di riversare montagne di rubli in sponsorizzazioni, a fini d’immagine e di pubbliche relazioni. È il caso di Gazprom, che finanzia la Champions League, la Stella Rossa di Belgrado (in Serbia passa il gasdotto South Stream) e lo Shalke 04, cartina di tornasole sportiva dell’intenso rapporto economico russo-tedesco. La potente azienda dell’energia ha sostenuto anche il Chelsea di Roman Abramovich. Uno dei tanti oligarchi che hanno speso molto sul piano sportivo.

Gazprom ha elargito molto denaro anche in patria. Allo Zenit di San Pietroburgo, la città di Putin. Negli ultimi dieci anni ha vinto tre campionati, affermandosi anche in Europa (Coppa Uefa e Supercoppa nel 2008). La forza dello Zenit sta comunque nei campioni stranieri ingaggiati, più che nei talenti autoctoni.

Il calcio, ai tempi di Putin, ha servito anche interessi politici. A un certo punto le élite politiche del Caucaso, ciniche e corrotte, hanno portato blasonati personaggi del pallone nella regione, cercando di trasmettere un’idea di relativo benessere e ritrovata stabilità, da opporre alla spirale di violenza quotidiana dovuta alle azioni dei movimenti separatisti di matrice islamica e alla loro repressione senza sconti. Il Terek di Grozny ha ingaggiato come allenatore Ruud Gullit, nel 2011. Nel 2012 l’Anzhi Makhachkala, la squadra della capitale del Dagestan, ha messo sotto contratto Samuel Eto’o, affidando la panchina a Guus Hiddink. Ma ora la musica è cambiata. S’è tirata la cinghia, lo sforzo economico era eccessivo. I vip del calcio se ne sono andati. In ogni caso, anche nel Caucaso, tutto o quasi s’è fondato sull’immagine.

Qualcosa, a livello di vivai, in questi anni s’è comunque seminato. La nazionale di Fabio Capello ha tanti giocatori giovani. L’anno scorso l’Under 17 ha vinto gli europei. Queste nuove leve infondono un po’ di speranza in vista di Russia 2018.