Dopo aver seguito questo lungo percorso sin dagli esordi, giunti alla fine del percorso con l’uscita del terzo volume del «Lessico» gli interrogativi che mi pongo riguardano i cambiamenti che possono essere avvenuti a cominciare dalla nostra conversazione in occasione dell’uscita del primo volume.

Sono ancora validi i presupposti e le esigenze che avevano animato il progetto?

Quel desiderio di pensare le forme del cinema italiano con una prospettiva che oltrepassasse le pur meritorie operazioni che lo hanno inquadrato storicamente rimane più che valido, ed è forse il punto più innovativo del progetto. Credo infatti che la conclusione di questo percorso abbia mostrato la sua efficacia interpretativa: uno sguardo svincolato dalla linearità cronologica che mette in rapporto la rappresentazione cinematografica con categorie concettuali che ci possano permettere di leggerla in controluce, determinando accostamenti inediti. Per cui per esempio, al di là della tradizionale visione che vede esaurirsi il fenomeno neorealista con il «neorealismo rosa», si può pensare un arco temporale più ampio che parte da Roma città aperta e finisce con Salò e che passa per il tratto «tanatopolitico» del corpo torturato e ucciso. Nel film di Rossellini la morte sarà «riscattata» dallo sguardo-testimone dei bambini, in Salò nessuna redenzione è possibile.

Tra i tanti punti di forza presenti nell’opera, uno dei maggiori consiste nella capacità di sintetizzare un’intera produzione cinematografica all’interno di una cornice coerente e tuttavia mai riduttiva. Quali sono gli aspetti e le tappe principali proposte da questa lettura, che attraversa la storia del cinema italiano considerandola come storia delle forme proprie dell’immagine in movimento?

Anzitutto, la cifra unificante credo risieda nella capacità unica del cinema italiano di raccontare il mondo, di dare forma a un presente sempre vivo e mai compiuto. Il Lessico si è interrogato proprio su queste modalità, a partire dall’esperienza neorealista, nella quale un popolo allo sbando è stato capace di reinventarsi raccontando la Resistenza e le grandi difficoltà del dopoguerra attraverso forme che il critico André Bazin ha chiamato «romanzesche».

Negli anni Cinquanta questo rapporto stretto tra forme cinematografiche e forme di vita si sviluppa con la commedia e il neorealismo rosa – Due soldi di speranza, Pane amore e fantasia ecc. – dove gli intrecci tornano ad essere centrali e non più «episodici» perché la vita entra in campo con i suoi valori, i comportamenti, le abitudini. È la ricostruzione di una dinamica sociale integrata e progressiva che, fondata sull’azione, necessita del supporto di storie.

Negli anni Sessanta c’è invece una trasformazione decisiva, che segnerà il cinema italiano fino ad oggi: questo insieme di valori comincia a sfilacciarsi ed entra in campo il grottesco, che parte da Divorzio all’italiana o Il sorpasso e, passando per autori come Ferreri e Petri, arriva sino a Belluscone. Che cos’è il grottesco? Lo dice Dürrenmatt: una modalità di restituzione del presente frammentato e lacerato, attraverso un filtro che permette di creare una distanza per non scivolare nella «cronaca».

C’è poi un altro modello molto importante per la nostra tradizione, il melodramma, cioè il tentativo di astrarsi dal reale, che però rientra di sbieco in modo ancora più forte. La dicotomia commedia-melodramma e tutta la piega grottesca che, a partire dagli anni Sessanta, prende il nostro cinema, d’autore e di genere, segnano in maniera unica e inimitabile il rapporto incandescente che c’è tra le forme del cinema italiano e il reale. Ed è probabilmente Pasolini che sintetizza questo rapporto nel modo più radicale.

Tu individui due grandi direttrici del cinema italiano che riassumono perfettamente quell’intreccio tra forme di vita e forme di rappresentazione, che altrove hai chiamato la sua «specificità non specifica». Puoi illustrarle brevemente?

L’arco che chiamo della «modernità controversa» – di cui ho accennato all’inizio – individua un periodo nel quale il cinema italiano ha conquistato il mondo: Rossellini, De Sica, Visconti, Antonioni, Fellini, Pasolini… In questi trent’anni avviati dal corpo sacrificale di Anna Magnani in Roma città aperta, fondativo della nuova «individuazione» italiana, il nostro cinema è stato capace di sondare e sperimentare tutti i rapporti più controversi e intensi con un reale incandescente, la cui irruzione irrefrenabile ha marcato in forma indelebile le nostre forme espressive, giungendo ai corpi insacrificabili di Salò, che sono davvero «nuda vita», punto di non ritorno.

Ma accanto a questo primo arco, a partire dagli anni Sessanta prende avvio un secondo arco dagli effetti dirompenti, quello della cosiddetta «postmodernità». Sergio Leone, lavorando sui generi popolari, è stato in grado di pensare un tipo di cinema che chiudeva definitivamente con la questione della vita e del reale, assorbendola nelle forme dell’immaginario. Leone aveva capito, a partire da Per un pugno di dollari, che il legame stretto tra forme di rappresentazione e forme di vita, avviato dal neorealismo, si era concluso con il boom e il neocapitalismo, e che la posta in gioco per il cinema era ora un lavoro con l’immaginario, per di più importato dall’America, svuotato dei suoi legami con il simbolico.

A questo proposito, tu insisti molto sulla funzione mediatrice dell’immagine nei rapporti tra il soggetto e il mondo. Quali sono le tensioni dominanti di questo rapporto, attraverso le quali è possibile costruire un’ulteriore storia del cinema italiano?

Questo è un punto chiave che affronto direttamente nelle voci «Amore» e «Identità», ed è legato a quello che Leopardi chiamava il sentimento scettico, come precipuo della tradizione culturale italiana, dettato dalla mancanza di una «società stretta» (di una borghesia illuminata), che al contrario si alimenta di illusioni. Cosa può accadere in seguito alla fine delle illusioni?

Si può continuare a perseguire lo scetticismo, come fa Antonioni: i suoi personaggi sono in una sorta di impasse, dato che il loro tentativo di comprendere il mondo su base esclusivamente epistemologica è destinato a fallire. Se rileggiamo alcuni grandi momenti del cinema italiano, vediamo che i personaggi entrano in crisi nel rapporto amoroso con l’altro, perché sono totalmente soggetti e subordinati ad istanze di tipo conoscitivo, e dunque sono attraversati da un profondo scetticismo. Penso a Ultimo tango a Parigi di Bertolucci o a Marcia trionfale di Bellocchio, o a tutto il cinema melodrammatico (nel quale però lo scetticismo transita dal piano epistemologico a quello emotivo).

Ma c’è qualcos’altro oltre l’illusione e lo scetticismo: è la credenza, non in un altro mondo ma in questo mondo qui, come dice Deleuze. Rossellini è l’unico regista italiano della credenza, e da questo punto di vista il film più importante del nostro cinema è Viaggio in Italia, perché lì questo triplice movimento (dall’illusione alla credenza, passando per lo scetticismo) è inscritto nel film stesso, nella coppia protagonista. Tutto il cinema di Rossellini è animato dalla possibilità di ritessere i legami tra soggetto e mondo attraverso il cinema, ma questa possibilità è un atto di fiducia cieco, che traspare dalla forza che l’immagine ha di legare soggetto e mondo. Per questo Pasolini è disperato o nostalgico (il che è lo stesso): perché non può più credere nel mondo e nel cinema come relazione tra immagine e mondo.

Possiamo rileggere tutta la storia del cinema italiano attraverso queste distinzioni, attraverso questi sentimenti di fondo: illusione, scetticismo, credenza. Con Leone le cose cambiano: non più un regista della credenza, il contrassegno della modernità, ma un regista dell’ironia e del «gioco», che apre così la strada alla cosiddetta postmodernità.

Che cosa raccoglie il cinema italiano dell’eredità culturale italiana, se mai è possibile definirla in termini unitari? E cosa rimane oggi, in una situazione contraddittoria tra autori emergenti e difficoltà produttive, di questa tradizione?

L’originalità del cinema italiano mi sembra sia stata questa: il nostro cinema è stato radicalmente italiano senza essere nazionale. Non si è mai posto il problema della nazione, contrariamente alla letteratura, legata invece anche a una tradizione risorgimentale. C’è un modo italiano di sentire, di vivere, di orientarsi nel mondo, e il cinema l’ha saputo accogliere e raccogliere, ma questo modo non coincide con un tratto di identità nazionale, piuttosto con un’individuazione molto forte. E nel cinema italiano più recente la questione dell’identità nazionale si è completamente dissolta, così come sembrano essersi dissolti anche i processi di individuazione che hanno attraversato tutta la tradizione del moderno, tranne alcune importanti eccezioni, tra le quali Bellocchio, Moretti, Martone, Marcello, Frammartino.