Inaspettato quanto gradito, arriva l’invito a partecipare a questo anniversario. Dopo un lungo (e lento) addio, non è agevole tornare a scrivere sulle nostre pagine: quasi mi sentissi un ospite, se non un intruso. È che il tempo consuma non solo le menti e i corpi, ma offusca anche il ricordo, stempera le tensioni, e le stesse relazioni sfioriscono nell’assenza che scivola via senza rammarico.

Eccomi, tuttavia, qui a festeggiare il cinquantesimo compleanno del manifesto, dopo averlo prodotto e curato, conservato e difeso per una buona metà del suo tragitto, e per l’altra metà vederlo via via sperdersi fino a quel silenzioso distacco che tuttora cerca cause e ragioni.

Ma in questo tornato aprile ci ritroviamo insieme, tanti e tante, chi prima, chi dopo, chi sempre, chi mai. Felicemente consapevoli di aver realizzato un’opera collettiva che per decenni ha accompagnato la storia e le storie, e a cui auguriamo di continuare a farlo nel futuro.

È in momenti come questo che viene da chiedersi come sia stato e sia ancora possibile.

E non è una banale affermazione di circostanza, né quel tipico riflesso retorico che si usa per esaltare orgogli e vanità. È una domanda vera. Ve lo dice uno che nel giornale ha fatto di tutto, dalla segreteria di redazione alla raccolta pubblicitaria, dalle inchieste più spericolate alla promozione dell’azionariato popolare.

Non so quante attività avrebbero resistito con i conti sempre in rosso, una cronica esilità strutturale, i ricavi sempre insufficienti, gli stipendi a singhiozzo, i sussidi sempre più ridotti e una serie ragguardevole di precarietà, mancanze e malinconiche privazioni.

Ciò che ha tenuto e tiene in piedi il manifesto è dunque una misteriosa alchimia immateriale: che ha a che fare con la tensione ideale, il rigore intellettuale, la qualità professionale e, non certo ultima, la sua funzione politica, che poi è strettamente legata alle originarie ragioni fondative.

Questo giornale non ce l’avrebbe mai fatta ad andare avanti per così lungo tempo, se fosse stato solo un giornale. Se non si fosse attrezzato alla lotta politica, contrastando poteri e soprusi, svelando imbrogli e miserie, raccontando altre informazioni e altre verità. E così affiancandosi ai lettori, che quelle informazioni e quelle verità vogliono leggere, per usarle e brandirle.

La longevità del nostro «quotidiano comunista» è racchiusa insomma in un’annosa e irrisolta dialettica, quella che si sbatte e si dibatte tra confezionare un prodotto editoriale e organizzare uno strumento politico.

E non casualmente, tra ricordi e rimandi, ad affiorare dal passato sono quei frangenti in cui si riuscì a domare le diverse tensioni per poi comporle in una sintesi più avanzata ed efficace: a volte bastava trovare un titolo geniale e suggestivo, più spesso grazie a un faticoso lavoro di confronto e raccordo.

Tra asprezze e ricomposizioni, la vita del giornale e nel giornale si srotolava insomma intorno a questa feconda contraddizione, il cui principale merito è stato quello d’averlo tenuto sveglio per tutto questo tempo.

L’informazione e la politica viaggiano insieme e hanno bisogno l’una dell’altra. Ma se la prima si accontenta di rappresentare acriticamente la seconda, e quest’ultima persiste nella sua vieta separatezza dalla condizione materiale, l’informazione sbiadisce e la politica deperisce.

È questa ritmica, impigrita e sussiegosa, che il manifesto riuscì subito a spezzare, caricando le sue pagine con la critica, la protesta e a volte lo sberleffo, proponendo nuovi argomenti e nuovi protagonismi, imponendo alla lettura la vita reale, i conflitti sociali, i movimenti di lotta, le battaglie culturali.

Questo giornale sentiva il bisogno di esprimere una propria soggettività, in grado di discostarsi dal compiacente conformismo dell’informazione politica e di condizionare, ovviamente in meglio, le scelte della politica stessa. In particolare verso la sinistra, con cui da cinquant’anni è in corso uno strenuo corpo-a-corpo. Un confronto che di certo non si è ancora placato, ma che, anche a voler essere benevoli, non sembra aver purtroppo sortito gli effetti sperati. Anzi, tutt’altro.

La sinistra sembra volersi estinguere e oggi il manifesto sbaglierebbe a seguirla nella sua dissoluzione. Meglio sarebbe andare a cercarla laddove ancora non sa di esserlo, tra gli impoveriti e i deprivati, i delusi e gli esodati, i risentiti e gli accigliati.

Forse dopo cinquant’anni vissuti pericolosamente è arrivata l’ora di un nuovo inizio, da vivere altrettanto pericolosamente.