Quella di Gianna e Neri è una storia oscura della Resistenza. La ricostruzione appassionata che ne fa Mirella Serri (Un amore partigiano, Longanesi, pp. 217, euro 16,50) consegna al lettore un’empatia forte con i due protagonisti: lei, all’anagrafe Giuseppina Tuissi, che diventa partigiana dopo che i fascisti uccidono il fidanzato, torturata a sua volta in una prigione di Salò, addetta all’inventario del cosiddetto «oro di Dongo» sequestrato ai gerarchi, accompagnatrice di Claretta Petacci nel suo ultimo viaggio (e l’amante di Mussolini viene dipinta come una donna antisemita, ambiziosa e priva di scupoli, smontando ogni stereotipo assolutorio); lui, vero nome Luigi Canali, a capo della Brigata Garibaldi che arrestò il Duce, secondo qualcuno l’uomo che diede il colpo di grazia al gran capo del fascismo (ma per le cronache l’esecutore materiale fu un altro partigiano, Walter Audisio, che a più riprese ha raccontato come avvenne l’esecuzione).
L’autrice ne sposa la causa e aderisce all’idea che tra i due ci fosse più che una comunanza politica, un’ipotesi suffragata dalle parole della vedova di Canali quando, nel 2002, il Comune di Como ha inaugurato una scalinata intitolata ai due combattenti per la Liberazione dal nazifascismo: «Per quel che mi riguarda, Gianna è la donna che mi ha portato via un marito che mi amava».
Ma è soprattutto una storia dal tragico finale, che racconta delle opacità e delle durezze di quell’ultima fase della guerra partigiana e soprattutto di quei mesi di interregno seguiti al 25 aprile del ’45. Ne scrisse sul manifesto Rossana Rossanda, nel 1985, ben prima che due lettere del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e poi Walter Veltroni da segretario dei Ds arrivassero a chiudere una ferita rimasta aperta per settant’anni: «Mi sfilavano davanti le immagini dei compagni uccisi… Questo ricordo, vivo come i colori freddi d’una giornata d’aprile del Nord, e quello immediatamente successivo del Neri e della Gianna, uccisi dai loro, dai miei compagni per una storia oscura e della quale mi si avvertì energicamente che non mi dovevo occupare, fece sì che non mi è riuscito di dire ‘Ai bei tempi della resistenza’». Rossanda ha ripreso la vicenda nella più recente autobiografia La ragazza del secolo scorso. Racconta di quel «comandante favoloso» e di «una ragazza spericolata», della loro condanna e della fucilazione, non crede al collegamento con la scomparsa dell’oro di Dongo, come pure Mirella Serri, e scrive che «nel 1945 nulla di quella storia mi convinse. Ma non mi venne in mente di abbandonare. Non me ne vanto, non me ne pento».
Come morirono Gianna e Neri? E per mano di chi? Fu una vicenda «locale», un regolamento di conti all’interno delle bande partigiane comasche o la gravità dei fatti non consente di archiviarla come tale? Erano «traditori», come aveva deciso il Tribunale della Resistenza diramando ai Gap l’ordine di ucciderli, oppure no, come avevano pensato da subito i compagni del Neri, riaccogliendolo nella loro brigata dopo la fuga dal carcere? Soprattutto, perché dare esecuzione a una sentenza di morte quando tutto era ormai finito? «A Milano domandai un’inchiesta. Urtai contro un muro. Tutti coloro che la chiesero urtarono contro un muro. Forse non si volle ammettere l’errore, forse lo si comprese inescusabile», scrive Rossanda.
Mirella Serri aggiunge qualche sospetto in più, lasciando intravvedere delle rivalità preesistenti: chi fece la soffiata che fece arrestare entrambi a Lezzeno, sul lago di Como? L’ipotesi è che il comandante Neri, comunista, fosse inviso ad alcuni personaggi della Resistenza comunista comasca, in primis Dante Gorreri, ex Ardito del popolo, collaboratore di Guido Picelli nella resistenza antifascista di Parma nel 1922, segretario del Pci di Como, dopo la guerra componente dell’Assemblea Costituente, poi arrestato con l’accusa di essere il mandante degli omicidi di Gianna e Neri, scarcerato nel 1953 perché eletto deputato per il Pci e infine amnistiato. E poi a Pietro Vergani, anch’egli senatore nel dopoguerra e poi amnistiato, che da comandante delle Brigate Garibaldi della Lombardia aveva fatto sospendere la condanna a morte dei due partigiani.
L’accusa nei confronti di Neri, poi smentita dai fatti, fu quella di essere una «spia» del nemico, fatto fuggire dal carcere per arrestare i compagni. La partigiana Gianna, anch’ella comunista, fu invece sospettata di aver parlato, sotto tortura, rivelando gli indirizzi di alcune basi partigiane e provocando diversi arresti. Fu uccisa e gettata nel lago il 22 giugno del 1945, giorno del suo ventiduesimo compleanno, probabilmente perché non si era arresa alla scomparsa nel nulla di Luigi Canali, avvenuta il 7 maggio. I loro corpi non saranno mai ritrovati.