«L’idea mi è venuta passando per un vicolo del vecchio cuore popolare di Barcellona. C’erano due cartelli artigianali scritti a mano: uno invitava ad entrare nel centro yoga “Felicità perfetta”, l’altro annunciava “Si organizzano funerali”. Questa immagine contraddittoria mi ha fatto scattare qualcosa in testa. Ho cominciato a riflettere e la prima cosa che mi è venuta in mente è che la crisi sta spingendo la gente ad inventarsi qualunque cosa pur di campare. Poi ho pensato che, proprio a causa di questa situazione, abbiamo recuperato qualcosa che non avremmo mai dovuto dimenticare, qualcosa di importante: vale a dire che questo è un paese povero». È nato così l’ultimo romanzo di Eduardo Mendoza, O la borsa o la vita, da poco pubblicato da Feltrinelli (pp. 236, euro 14). Si tratta di una storia strampalata, ma irresistibile, a metà tra il picaresco e il giallo con punte di follia e colpi di scena degni dei primi film di Almodovar che mette in scena una torrida estate di crisi economica in una Barcellona popolare, un po’ pasoliniana ma gioiosa e piena di humour. Un detective senza nome, e reduce dall’internamento in manicomio – personaggio già protagonista di altri tre romanzi di Mendoza -, che si è riciclato come parrucchiere, indaga su un misterioso complotto ordito per rapire la cancelliera tedesca Angela Merkel in occasione di una sua prossima visita in città. Ad aiutarlo nell’impresa, una serie di figure una più bizzarra dell’altra: tra loro una ragazzina soprannominata Formaggino, Flint il Dritto, ex truffatore che ora fa la statua vivente sulla Rambla, il signor Siau, proprietario del bazar cinese La Bamba, la Moski, vecchia militante stalinista che suona la fisarmonica nei bar e Menelik, un immigrato africano che consegna pizze a domicilio.

Un’umanità un po’ sfigata e un po’ fuori di testa chiamata a rappresentare, agli occhi di Mendoza, la Barcellona dell’«età della crisi», tra l’arte di arrangiarsi e le nuove povertà. Del resto è nella metropoli catalana, dove lo scrittore è nato nel 1943 e dove ha vissuto gran parte della sua vita, ad eccezione di una parentesi newyorkese, che sono ambientati gran parte dei suoi romanzi, tra cui Il mistero della cripta stregata e La verità sul caso Savolta, che lo hanno reso uno dei protagonisti della narrativa spagnola.

eduardo-mendoza
Fin dal titolo «O la borsa o la vita», il romanzo sembra parlarci della crisi economica… Era questo il tema che voleva affrontare?

Quando ho cominciato a scrivere questa storia, più di due anni fa, la crisi in Spagna non aveva ancora raggiunto il suo punto più alto e drammatico. Però volevo riflettere, ma con ironia, sul clima di difficoltà e preoccupazione che già si andava delineando. E, soprattutto, mi interessava capire quale effetto la crisi avrebbe potuto avere su Barcellona, una città che, nel corso della sua storia, è stata molto povera, ma anche molto ricca, dove è passata tanta gente portando abitudini e stili di vita diversi. Volevo interrogarmi su cosa sarebbe stato di tutto questo nell’immediato futuro.

Come le sembra sia cambiata la metropoli catalana negli ultimi anni?

Barcellona è cambiata molto, solo che non è facile rendersene conto, perché si tratta di una città che è stata attraversata da una sorta di trasformazione costante. Quando ero piccolo si trattava di una città dominata dall’industria, quindi è venuto il momento della finanza, infine è arrivato il turismo. Quanto alla crisi, ha colpito duro sia in termini di condizioni di vita degli abitanti che sullo stesso profilo complessivo della città. La città di oggi assomiglia molto ai personaggi di questo romanzo: un po’ furfanti, un po’ approfittatori che tirano a campare e vivono alla giornata, senza darsi obiettivi troppo lontani. Solo un aspetto, dell’identità tradizionale di Barcellona non è fortunatamente mai mutato: il fatto di essere un luogo a metà strada tra l’Europa e l’Africa, una metropoli cosmopolita che ha saputo conservare il suo carattere aperto e accogliente anche nei momenti difficili.

Per essere un giallo, anche se sui generis, in questo libro mancano completamente i «cattivi». Ci sono solo figure più sfortunate e perdenti di altre. Così, alla fine, si salvano o vanno a fondo tutti insieme. Come interpretare questa sua scelta?

Significa che dentro la crisi ci sarà certamente chi si è arricchito ed è disprezzabile per quello che ha fatto. Per tutti gli altri, il problema è come evitare che la barca vada a fondo. Sono così nate forme di solidarietà e di aiuto reciproco che per molto tempo sarebbero state semplicemente inimmaginabili. In questa situazione riemerge lo spirito solidale che era proprio di un popolo che è stato a lungo povero: parlo degli spagnoli, ma in modo particolare degli abitanti della Barcellona che conosco io, quella dei vicoli del centro prima che arrivasse il turismo e dei quartieri dove vivevano i lavoratori e la classe media.

Tra i personaggi del romanzo incontriamo anche un’Angela Merkel più affascinata che spaventata dalla situazione spagnola, quasi l’inverso di ciò che ci raccontano d’abitudine le cronache politiche ed economiche. Perché l’ha voluta nella sua storia?

Al di là delle rappresentazioni un po’ caricaturali che si offrono dei rapporti tra la Germania e il resto dei paesi europei, una delle caratteristiche della crisi economica è che non abbiamo un nemico certo, qualcuno che ci minaccia davvero. Quella che i media definiscono come la «cancelliera di ferro», in realtà appare come una donna preoccupata dalle sorti del suo paese e incerta sul da farsi. A differenza di Margaret Thatcher, Merkel non mi pare possa essere definita come un «nemico»: in fondo sta nella nostra stessa situazione, anche se la situazione dei tedeschi è migliore della nostra. Per questo, nel mio romanzo c’è un passaggio dove il personaggio Angela Merkel esprime nostalgia per un fidanzatino spagnolo conosciuto durante una vacanza a Barcellona fatta in gioventù.

Proprio da Barcellona, negli ultimi anni, ha ripreso vigore l’indipendentismo catalano, cresciuto in chiave antifascista già durante la dittatura di Franco, ma che oggi scommette soprattutto sull’idea che dalla crisi si possa uscire meglio separandosi da Madrid. Cosa ne pensa?

È vero, oggi gli indipendentisti che hanno sempre rappresentato una parte importante dell’opinione pubblica catalana, parlano di economia più che di cultura o di politica, come facevano in passato. E la crisi sta rendendo le loro tesi ogni giorno più popolari. Personalmente ho molti dubbi a credere che l’indipendenza possa risolvere i problemi economici e finanziari di Barcellona e dell’intera Catalogna. Devo comunque constatare che questa ipotesi è in campo e ha molti sostenitori.