Stando a quanto David Foster Wallace ha più volte detto, i soldi non sono mai piovuti dal cielo direttamente sulla sua testa, dunque non proprio tutto ciò che ha scritto obbedisce a una urgenza espressiva, e si può ipotizzare che qualche articolo dettato dall’esigenza di mantenersi se lo sarebbe volentieri risparmiato. La allegoria dell’Aids che apre il volume della sua non fiction inedita, Di carne e di nulla (traduzione di Giovanna Granato, Einaudi, Stile libero, pp. 240, euro 18,00, in uscita martedì), per esempio, deve essergli costata qualche sforzo, se non altro lo sforzo di obbedire, anche in questa occasione di poco conto, a quel principio di prestazione che lo scrittore americano sentiva, a volte, come un richiamo funzionante al tempo stesso come stimolo e come inibizione, come alimento della vanità che è indispensabile all’esercizio della scrittura e come fonte di sospetto sulla propria vocazione.

Richiesto dal «Might Magazine» di dire la sua sui pericoli del virus portatore dell’Hiv, Foster Wallace lo paragona al drago che gli antichi cavalieri dovevano vincere prima di giungere a soddisfare i propri desideri. Allora come adesso, tanto più alto era (ed è) il prezzo da pagare per raggiungere la meta, tanto maggiore sembrava essere il «voltaggio erotico» rilasciato dall’impresa. Morale della favola, oggi che non esistono più temibili impedimenti da oltrepassare, né fortezze da espugnare, ora che le porte di tutti i castelli sono schizzate via dai loro cardini e all’orizzonte non oscillano trecce lungo le quali arrampicarsi, possiamo considerare l’Aids una benedizione: il suo dono – dice DFW – sta nell’averci ricordato che nel sesso non c’è nulla di spensierato.
Sembrerebbe una elargizione di morale travestita da parabola illuminista, e di fatto lo è, ma anche tra queste pagine la voce affettiva di Foster Wallace, la sua attraente asseveratività finiscono con il guadagnare il primo piano. E, in effetti, persino questi scritti raccolti come l’ultimo distillato di un nettare da non disperdere, funzionano a volte più come sintomi che come agenti referenziali degli oggetti di cui parlano, e ci portano notizie di una inquietudine da esaltare piuttosto che da neutralizzare nella scrittura, facendola aderire il più possibile all’impossibile pretesa di mimare la propria reattività a ogni dettaglio osservato: quella reattività che le sue tanto celebri quanto chilometriche note a piè di pagina si incaricavano di accogliere.

Datato 1996, lo scritto che apre la raccolta Di carne e di nulla cade nell’anno della pubblicazione di Infinite Jest, quando la notorietà dello scrittore americano era già sufficientemente diffusa, e a ciò che ancora le mancava stava provvedendo la casa editrice Little, Brown, impegnata a gridare al capolavoro fino al punto di suscitare le ire della stesso Foster Wallace: «L’evento letterario del ’96? E se non lo è? E se nessuno lo compra?» scriveva al suo editor Michael Pitsch. L’uomo, al tempo stesso il suo più fedele lettore e il più implacabile esattore dei tagli cui Foster Wallace dovette – almeno parzialmente – assoggettarsi, è anche il responsabile di quel paragone che vuole la scrittura dell’autore americano simile a un frammento «caduto da una altezza vertiginosa», una specificità che sembra persino esaltata dalla giustapposizione dei brani raccolti in questa antologia di articoli e interviste, ordinati secondo un criterio non cronologico.

Tra i testi più interessanti, il lungo articolo dedicato agli scrittori «Vistosamente Giovani», la cui vicinanza alla pubertà è sembrata costituire, almeno nella considerazione dei media, il loro più grande merito. Ciò che di certo li distingue dagli scrittori che li hanno preceduti è il fatto che appartengono a una generazione, quella nata dopo il 1955, che per prima ha fatto della televisione un oggetto «non solo da guardare ma con cui vivere». Le conseguenze di questa evidenza sembrerebbero avere affollato l’immaginario di Foster Wallace e dei suoi personaggi al di là dell’inevitabile, riflettendosi in una ambivalenza che lo scrittore non si attarda a nascondere. E per quanto riguarda il giudizio critico sulla generazione alla quale egli stesso appartiene, il succo di ciò che ne pensava era già stato concentrato adeguatamente da D. T. Max tra le pagine della sua biografia titolata Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi: nella considerazione di Foster Wallace gli scrittori a lui contemporanei andrebbero divisi «in tre squallidi filoni», più o meno corrispondenti agli effetti che il mezzo televisivo ha prodotto sulla loro narrativa.
È evidente che né il filone del Brat Pack letterario, né quello degli ultraminimalisti affetti da «Realismo Catatonico», né il resto della produzione letteraria promossa dalle scuole di scrittura creativa riuscivano a smuovere le simpatie dell’autore americano, abbastanza pudico, tuttavia, da non spendersi in eccessive professioni di estraneità alla sua generazione. Ciò che, una volta di più, solleva queste pagine dalla loro seriosità è l’ironia con la quale Foster Wallace inchioda gli imputati di turno, per esempio aderendo alle critiche di coloro che, recensendo gli Scrittori Vistosamente Giovani, avvertono «quel refolo di tweed che potrebbe presagire una vera e propria tempesta di noia».

L’articolo venne pubblicato nel 1988 su una piccola rivista d’avanguardia, la «Review of Contemporary Fiction», insieme a contributi dell’amato John Barth e di Gilbert Sorrentino, mentre Foster Wallace insegnava a Amherst e cercava di riprendersi da un incidente di percorso che si presentava come la dimostrazione più eloquente della influenza che la televisone aveva avuto sulla sua narrativa: una influenza il cui ruolo lo scrittore americano rivendicava come qualcosa da esibire più che da nascondere. Il fatto è che mentre il suo racconto titolato «La mia apparizione» stava per andare in stampa su «Playboy», un editor vi riconobbe frammenti di dialoghi che l’attrice Susan Saint James aveva effettivamente pronunciato in una nota trasmissione televisiva. La rivista non poteva essere bloccata e il racconto uscì, ma l’ufficio legale avvertì la Viking Press, che si apprestava a raccogliere i racconti di Foster Wallace, e la casa editrice decise di bloccarne la pubblicazione.
Un sincero stupore misto a indignazione si impossessò dell’autore americano, che essendosi già spinto ai limiti del plagio quando, scrivendo «Verso Occidente», aveva ricalcato un racconto di Barth, ora non vedeva nulla da eccepire nell’inglobare parole veramente pronunciate da un personaggio reale: la sua editor di allora, Alice Turner, trovò per l’incidente la definizione senz’altro più azzeccata: «una birichinata postomoderna». Dieci anni dopo, riflettendo sulla «Natura del divertimento», ossia sulle seduzioni e sui tormenti che si accompagnano alla gestazione di un libro, Foster Wallace mutuava da DeLillo l’analogia con un bimbetto mostruosamente mutilato, che ossessiona con la sua presenza e i suoi handicap lo scrittore, facendolo sbandare tra repulsione e amore, fra la triste consapevolezza dei temibili difetti che il dattiloscritto gli presenta e la speranza di farli passare inosservati agli altri: «vuoi che vedano perfetto quello che in cuor tuo sai essere il tradimento di ogni perfezione.»

Il breve rendiconto, scritto nel 1998 per il «Fiction Writer Magazine» si presentava come una messa a fuoco delle frustrazioni e delle gioie di ogni scrittore, e coincideva con la stesura dei racconti messi insieme in Brevi interviste con uomini schifosi, un libro che per sua stessa ammissione aveva scombussolato Foster Wallace, costringendolo a riflettere su aspetti di sé che gli davano non poche preoccupazioni.

Una volta di più la sua intenzione era quella di scrivere un libro «triste», che rendesse conto del suo stato d’animo e del disorientamento condiviso con tanti amici che gli stavano intorno: ci aveva già provato con Infinite Jest, ma quasi tutti avevano esaltato il lato divertente del romanzo. Ora voleva che la tristezza risaltasse come una connotazione inequivocabile, e dunque ne esplicitò il peso nelle interviste che seguirono alla pubblicazione del libro: ne parlò come fosse una dichiarazione di poetica, ma naturalmente era molto di più.