E’ senz’altro vero, come scrive Roberto Calasso nel suo Come ordinare la biblioteca che questo «è un tema altamente metafisico». Eppure non vanno trascurati né il dato materico né quello più prettamente sentimentale, veri perni attorno a cui ruota l’organizzazione fisica dei propri libri. Attrezzarsi una biblioteca è un fatto di scatole o cassoni, di piegamenti sulle gambe, di schiene doloranti, di polvere e starnuti. È una faccenda di disagio posturale, di caos prima che bibliografico reale: libri sparsi sopra il pavimento, attraversamento delle stanze con la mossa del cavallo, scotch e pennarelli.
E se estrarre i libri dalle scatole ha qualcosa di monumentale, e va dalla parte della costruzione, riporre nelle casse una biblioteca intera ha qualcosa di fallimentare e malinconico. È togliere la luce, sottrarre alla vita, ricorda la deposizione di un corpo nella bara.

Il loro posto e il mio
Tutto quello sprigionare di storie e di idee disposto nello spazio (casa privata o biblioteca pubblica) viene compresso in una spazio buio, e lì poi sigillato. Di questo, in qualche modo, parla Vivere con i libri Un’elegia e dieci digressioni, di Alberto Manguel (Einaudi, traduzione di Duccio Sacchi, pp. 128, euro  16,00), commovente e poetico racconto di un congedo, almeno temporaneo, dai propri testi: «L’ultima biblioteca che ho avuto si trovava in Francia, all’interno di un’antica canonica in pietra a sud della valle della Loira, in una borgata tranquilla di meno di dieci case. Io e il mio compagno avevamo scelto quel posto perché vicino alla casa c’era un granaio (…) grande abbastanza per sistemarci la mia biblioteca, che a quel tempo aveva raggiunto i trentacinquemila volumi. Pensavo che una volta che i libri avessero trovato il loro posto, anch’io avrei trovato il mio. I fatti mi avrebbero smentito».

Manguel ha dedicato la sua vita, scrivendo, alla lettura e alle biblioteche. E uno scrittore che ha fondato la sua carriera più che sull’erudizione, sulla condivisione delle conoscenze, rappresenta la messa in sicurezza di un patrimonio dell’umanità. Leggere è la costruzione di una relazione, fondare biblioteche, come disse Marguerite Yourcenar, «è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito». Congedarsi da una biblioteca, che sebbene privata conta trentacinquemila volumi ed è stata ricavata in un granaio, comprende dunque una malinconia privata e una più vaga forma di tristezza culturale e politica: impedire ai libri di essere in dialogo, tra loro, condividendo lo spazio di una mensola, e con i lettori.

Alla radice di questa meditazione il cui sottotitolo è, non a caso, Un’elegia e dieci digressioni sta un’idea molto forte di comunità. Una biblioteca costruisce prima di tutto una comunione di anime: autori che hanno scritto e reso pubblici i loro testi a distanza di secoli o millenni, e le cui anime, se così si può dire, hanno vagato trattenute dalla carta, si ritrovano a costruire una civiltà, tra le mura di una biblioteca.
Da ciò, naturalmente consegue l’intensità della tragedia di una biblioteca chiusa, o peggio, andata in fumo, come avvenne per la Biblioteca di Alessandria. «Forse la più grave perdita di una biblioteca (ma non c’è biblioteca la cui perdita non sia inestimabile) – scrive Manguel – avvenne in un giorno misteriosamente sfuggito alle nostra storie». Plutarco racconta che l’incendio sarebbe stato appiccato dalle truppe di Giulio Cesare nel 48 a.c., versione che oggi pare dubbia ma che non cambia l’entità epocale della perdita.
Perdere una biblioteca pubblica è perdere un organo vitale.

L’organismo che la conteneva, a da cui era alimentato, andrà in sofferenza, e per certi versi ne morirà. Farne manutenzione è dunque un atto di responsabilità. Da Direttore della Biblioteca nazionale argentina nel triennio 2015-2018 (la stessa che ebbe Borges come direttore dal 1955 al 1973) Alberto Manguel dedica alle biblioteche nazionali pagine intense e accorate. Non basta che una biblioteca ci sia, per rappresentare un vero patrimonio. «Perché una bibblioteca pubblica nazionale sia considerata dalla maggioranza delle persone tra le istituzioni fondamentali di un Paese (e quindi dirimente per la formazione civica dei suoi cittadini) occorre rispettare una serie di condizioni». E dunque essere aperta a tutti, essere ricettiva e in dialogo con i cambiamenti in atto, trovare nuovi utenti senza perdere i vecchi, escogitare metodi per creare consapevolezza e contagio. Sapendo – scrive Manguel – che «un metodo sicuro per far nascere un lettore, a quanto ne so, non è stato ancora scoperto. Nella mia esperienza, quel che talvolta (ma non sempre) funziona è l’esempio di un lettore appassionato».

C’è poi una comunità, più raccolta ma non meno importante, che si riunisce attorno allo smantellamento di una biblioteca privata, soprattutto se di trentacinquemila volumi, stabilendo quella differenza sottile tra comunità e amicizia che è forse il legame più congruo, in questo tipo di condivisione. Manguel descrive questo convenire di amici per soccorrere, più ancora che lo scrittore, i libri illusi di aver trovato una casa definitiva in quel vecchio granaio nel sud della Loira. Una piccola comunità di «smontatori, organizzatori e insatolatori», che giorno dopo giorno si prendono cura dei volumi, li dispongono geometricamente nelle scatole.

Dai gialli a Platone
Per quanto l’occasione sia un congedo – «Mettere i libri negli scatoloni (…) è un esercizio di oblio» – Vivere con i libri è prima di tutto un atto di amore nei confronti della lettura; e in fondo un inno al piacere anarchico di costruirsi una biblioteca personale. Alberto Manguel rende testimonianza prima di tutto di una grande passione, disordinata e vitalistica nella prima infanzia, poi via via organizzata, che rende conto della compresenza sugli scaffali di «giovani Penguin», «migliaia di gialli», Platone.

La prima mensola con i pochi libri che conservava da bambino sopra il letto, ha poi conquistato la casa come edera sui muri: è sufficiente uno scaffale, poi il resto lo faranno i libri con le proprie forza, per proliferazione naturale fino a diventare una vera e propria collezione. «Uno dei miei primi ricordi (dovevo avere due o tre anni all’epoca) è una mensola piena di libri appesa alla parete sopra il mio lettino, da cui la tata sceglieva la storia della buonanotte. È stata quella la mia prima biblioteca».