Nel 2005 veniva pubblicato il primo «Annuario Scienza, Tecnologia e Società» su iniziativa di Massimiano Bucchi, allora giovane professore all’università di Trento e oggi quarantatreenne e affermato sociologo della scienza. Dal lavoro dell’Annuario nacque anche «Observa Science in Society», oggi il principale centro di ricerca interuniversitario italiano sull’immagine pubblica della scienza. L’edizione 2014 dell’Annuario, curata dallo stesso Bucchi e da Barbara Saracino per Il Mulino, è la decima. La cifra tonda fornisce un’occasione per individuare le tendenze più stabili del decennio e raccoglierle in un numero speciale.

In questi dieci anni, il rapporto tra scienziati e cittadini è stato messo alla prova in diverse occasioni. Il referendum sulla legge 40 del 2005 e quello sul nucleare del 2012, il dibattito sulla prevedibilità dei terremoti coi suoi strascichi giudiziari all’Aquila, le battaglie sindacali dei giovani ricercatori, infine il caso Stamina. Da queste vicende, gli scienziati raramente sono usciti vincitori. L’Italia ne ha guadagnato la non invidiabile fama di paese ostile alla scienza.

Un paese ambivalente

I dati del rapporto annuale di Observa compongono però un quadro più complesso. In questi dieci anni, le conoscenze scientifiche degli italiani sono aumentate, a un ritmo lento ma continuo. Questo non contraddice le analisi catastrofiche dell’Ocse, che annualmente misura (o presume di misurare) le competenze, cioè le conoscenze messe al lavoro: sapere e «saper fare» non sempre vanno a braccetto. L’atteggiamento verso gli scienziati appare tuttavia positivo presso una percentuale crescente della popolazione.

La stessa tendenza è confermata dalle donazioni dei cittadini a favore della ricerca scientifica, in rialzo nonostante la crisi, mentre aziende e istituzioni latitano o diminuiscono il proprio impegno. Nei laboratori sponsorizzati da Telethon ringraziano, ma in fondo se lo sono meritato. I dati riportati da Observa dimostrano che la produttività dei ricercatori italiani è al livello di quella dei colleghi di Paesi che investono risorse ben maggiori.

Rimane dunque da capire un paradosso: gli scienziati italiani fanno tutto sommato un buon lavoro, ai cittadini l’informazione scientifica interessa, eppure gli scienziati che si schierano su questioni controverse non risultano convincenti.

È un rompicapo di non facile soluzione. Gli stessi ricercatori, se interrogati, vanno appena oltre la lamentela. Ma la sociologia della scienza sembra iniziare ad inquadrare il problema. Proprio Bucchi, uno dei fondatori di Observa, qualche anno fa aveva dedicato un acuto saggio intitolato Scientisti e anti-scientisti. Perché scienza e società non si capiscono (il Mulino).

Se la capacità persuasiva degli scienzati si rivela scarsa, sembra di capire, un po’ è colpa loro. Ancor più che l’affaire Stamina, la vicenda dell’Aquila – analizzata benissimo da Antonello Ciccozzi nel volume Parola di scienza (DeriveApprodi) – ha mostrato che anche uno scienziato competente può rivelarsi un pessimo comunicatore. La divulgazione scientifica, soprattutto in occasione di controversie pubbliche, non può limitarsi a riproporre i risultati delle ricerche con un lessico più accessibile. Vanno «divulgati» con altrettanta cura i meccanismi di validazione di una teoria scientifica, evidenziando i principi di razionalità e obiettività che li ispirano ma anche i conflitti di interesse che fanno emergere. Il vero «analfabetismo» scientifico è costituito dalla «fragilità di una cultura della scienza e della tecnologia nella società, di una cultura che sappia discutere e valutare i diversi sviluppi e le diverse implicazioni della scienza e della tecnologia», scrivono Bucchi e Saracino nell’introduzione. Le iniziative di coinvolgimento della popolazione nelle scelte di indirizzo in ambito scientifico, come le dieci censite da Giuseppe Pellegrini qualche pagina dopo, appaiono sporadiche e ancora insufficienti a forgiare una cittadinanza davvero consapevole.

Secondo Alberto Brodesco finisce per contare di più la rappresentazione televisiva degli scienziati: «necessariamente distorta a fini narrativi» come in Dr. House o legata a stereotipi eterni come lo «scienziato pazzo» che ritroviamo anche nei serial e nei film più recenti. È particolarmente interessante la vicenda di Al Gore e del suo documentario Una scomoda verità che valse un premio Nobel e un Oscar all’ex-vicepresidente statunitense: per convincere il pubblico di un fatto scientifico talvolta occorre stimolarne non solo le facoltà razionali, ma anche l’emotività.

Informazioni di carta

Non va molto meglio sui quotidiani e sul web, che Observa ha monitorato (ma manca «il Manifesto») per cinque anni, traendone dati non scontati. In media, lo spazio dedicato alla scienza e alla tecnologia nel 2013 è stato di poco inferiore al 10%, in calo costante dopo il picco del 2009 (13%). Il «Corriere della Sera» batte tutti: il 13,9% delle sue news è su questi temi mentre il «Giornale», ultimo, si ferma al 3,4%. Certo, bisogna vedere come se ne parla. Molti «articoli» spesso si rivelano poco più che pubblicità per gadget di tendenza e il ritratto degli scienzati sui media cade spesso nell’agiografia. Sorprende fino a un certo punto, dunque, che il quotidiano più attento a «visioni contrastanti e controversie pubbliche» sia quello dei vescovi, «Avvenire». Come diceva l’indimenticabile Don Pizzarro di Corrado Guzzanti, per loro questo è «lavoro».