L’accordo sulla linea ad alta velocità Cina-Thailandia è sempre più vicino: la firma di uno dei contratti è prevista per ottobre, ha annunciato il Ministro dei trasporti thailandese Saksayam Chidchob. È uno dei primi segni di ripresa della Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative – BRI) dopo il blocco legato all’emergenza Covid-19. Finora il progetto ha sollevato varie critiche: accusata di dare vita ad una “trappola del debito,” la BRI aveva incontrato numerose difficoltà anche prima della pandemia.Per il progetto, presentato nel 2013, la Cina ha speso finora circa 200 miliardi di dollari. L’accordo di fondo è questo: la Cina presta denaro al Paese coinvolto nell’iniziativa per costruire strade ed altre infrastrutture, ottenendo in cambio un mercato di investimento favorevole. Al suono di frasi propagandistiche come “una marea che sale solleva tutte le barche,” la BRI è diventata la nave ammiraglia della politica di espansione economica di Xi Jinping.

Poi è arrivata la pandemia, e la marea ha iniziato ad essere un po’ troppo alta per tutti. Molti Paesi hanno chiesto di rivedere le scadenze dei pagamenti. Ad aprile, il Pakistan ha inviato una lettera alla Cina per chiedere un rinvio della rata di maggio. Pechino si trova stretta tra due fuochi: da una parte, rinegoziare i debiti in un momento come questo pare inevitabile, a meno di non voler passare per usurai internazionali. Dall’altra, accettare un rinvio a oltranza dei pagamenti ha un prezzo molto alto in termini di politica interna: le casse nazionali premono per essere rimpinguate.

Se giocata bene questa partita potrebbe però rivelarsi vantaggiosa: la pandemia può essere una scusa per correggere problemi strutturali pre-esistenti senza l’onere di pubbliche ammissioni di colpa. Perché una cosa è certa, come certi sono solo i progetti del Partito: la BRI non si fermerà. Si può, al massimo, costruire una diga per arginare la marea che sale.

La Cina può approfittare dell’attuale stallo nel settore dei trasporti per ridirigere gli investimenti verso due ambiti più promettenti: quello sanitario e quello digitale. Sarebbe un’occasione per dare un volto nuovo ad un progetto che negli ultimi anni era diventato sinonimo di sprechi, disastri ambientali e corruzione. Basta guardare allo Sri Lanka, e all’ambizioso quanto fallimentare progetto di espansione portuale nella regione di Hambatota che la Cina ha firmato con l’ex presidente Mahinda Rajapaksa, ora indagato per irregolarità finanziarie. Per restituire il prestito lo Sri Lanka ha concesso alla Cina l’uso del porto per 99 anni: di fatto le ha regalato il controllo di un’area strategica, da anni contesa con l’India, e secondo le voci più critiche anche un pezzo di sovranità nazionale.

Il progetto dell’alta velocità thailandese, almeno sulla carta, non sembra segnalare un cambio di rotta della nave cinese. Il piano prevede un collegamento da Bangkok a Nong Khai, al confine con il Laos, e da lì fino a Kunming in Cina. I lavori Bangkok-Nakhon Ratchasima sono già iniziati e l’inaugurazione del tratto è prevista per il 2023. Il collegamento Cina-Thailandia fa parte del colossale piano della ferrovia pan-asiatica: 3000 km di rotaie che collegherebbero la Cina a Singapore attraversando Laos, Thailandia e Malesia. Il Laos ha accolto con entusiasmo il progetto e un debito di circa 1.5 miliardi di dollari, nella speranza di stimolare un’economia tra le più povere del sud-est asiatico. I lavori sono ultimati al 90%, ma il Laos ha scalato la classifica dei Paesi che rischiano una crisi del debito pubblico. L’accordo Malesia-Cina è invece stato congelato fino a dicembre.

La Thailandia sembrerebbe aver ceduto, anche se è sempre possibile che la firma del contratto sia rinviata. Un rapporto del Thailand Development Research Institute (TDRI) stima il costo della linea a circa 9.9 miliardi di dollari. Pechnipa Dominique Lam, ex-ricercatrice al TDRI e autrice del rapporto, definisce il progetto “una perdita economica.” Per recuperare i costi, “l’alta velocità cino-thailandese dovrebbe trasportare 50.000-85.000 passeggeri al giorno per 20 anni.” Con una contrazione economica stimata al 5% per il 2020 e 8.3 milioni di thailandesi che perderanno il lavoro a causa della pandemia, firmare il contratto ad ottobre potrebbe non essere una scelta saggia. Sumet Ongkittikul, direttore del dipartimento di ricerca su trasporti e logistica del TDRI, sostiene tuttavia che “rinviare il progetto ulteriormente non è contemplabile:” interrompere i lavori sul tratto Bangkok-Nakhon Ratchasima costerebbe troppo.

Finora il governo non ha reso pubblico alcun rapporto sull’impatto economico e sociale dell’alta velocità. “Informazioni sui diritti fondiari lungo il tragitto, sulla struttura della proprietà dell’alta velocità e sui termini esatti dei prestiti – questi sono solo alcuni dei punti che mancano di chiarezza,” scrive Lam. Un atteggiamento in linea con un governo, erede della precedente dittatura militare, che di certo non brilla per trasparenza. “Il governo dovrebbe condurre il processo in maniera più trasparente ed inclusiva.”

Resta da vedere a quali compromessi scenderanno i cinesi pur di realizzare il proprio obiettivo. Perché gli unici a guadagnarci sembrano essere loro: l’alta velocità thailandese segnerebbe un passo in più verso l’accesso a Singapore, terreno di battaglia economica e politica tra Cina e USA.

Solo il tempo dirà se la marea solleva le barche o le sommerge: per ora si naviga a vista, e si salvi chi può.