Una maratona di 20 ore contemporanea ai Giochi olimpici. E’ cominciata ieri, in Brasile, la prima delle due votazioni finali relative al processo di impeachment a Dilma Rousseff. La presidente brasiliana, sospesa dall’incarico il 12 maggio, è accusata di irregolarità fiscali: per aver «truccato» il bilancio, facendosi anticipare i soldi dalle banche e coprire così i costi dei progetti sociali destinati al settore rurale. Reati inesistenti, secondo autorevoli giuristi che hanno accompagnato la difesa della presidente. Dilma avrebbe adottato una procedura utilizzata a tutti i livelli di governo – centrale, federale e municipale – detta «pedalata fiscale», di cui si sono serviti anche i capi di stato che l’hanno preceduta dalla fine della dittatura (1964-1985). Un’operazione senza fini di lucro, né danno ai conti pubblici, perché il denaro anticipato è stato rimesso a posto.

Tuttavia, a ottobre del 2015, con una decisione che non veniva presa dal 1937, la Corte dei Conti non ha approvato il bilancio del governo, offrendo una sponda determinante alle manovre in corso contro la presidente. Il 27 giugno, la Commissione speciale dell’impeachment (Cei) del Senato brasiliano ha comunque stabilito la totale assenza di prove circa il coinvolgimento di Dilma nella «pedalata fiscale». Una decisione che assolve la presidente dal «crimine di responsabilità» e fa cadere due dei cinque capi di accusa che sorreggono l’impeachment. Resta da determinare se tre dei decreti emessi da Rousseff nel contesto del bilancio siano effettivamente irregolari perché firmati prima di aver ricevuto l’autorizzazione del Congresso.

Questioni tecniche che potrebbero essere chiarite da un pronunciamento definitivo della Corte dei conti, che non si è ancora espressa sull’appello presentato contro il respingimento dei conti del governo. Per questo, i senatori Lindbergh Farias (del Pt-Rj) e Vanessa Grazziotin (PcdoB-Am) si sono incontrati con il presidente della Corte suprema, il ministro Ricardo Lewandowski, che presiederà il giudizio finale. A lui hanno chiesto un allungamento dei tempi per produrre ulteriori materiali. Sulla carta, l’impeachment potrebbe essere archiviato da un voto a maggioranza semplice degli 81 senatori. Diversamente, ci sarà un ultimo voto il 29, a maggioranza dei 2/3.

Secondo il governo Temer, anche questa volta la presidente verrà sconfitta com’è accaduto dopo la lettura del rapporto dell’ultima apposita commissione, illustrato dal senatore Antonio Anastasia. Questi ha ribadito le accuse contro Dilma, e ha omesso una delle prove più evidenti delle manovre ordite ai suoi danni: una registrazione video, realizzata prima che un parlamento di corrotti votasse l’impechament, e diffusa dai media. Protagonisti, l’ex presidente della Camera Eduardo Cunha, grande burattinaio dell’impeachment, e Michel Temer, decisi a liberarsi di Rousseff per continuare a fare i loro affari e quelli dei loro committenti internazionali. Cunha, considerato un gran bandito politico, è stato obbligato a dimettersi perché chiamato in causa in diversi procedimenti, che coinvolgono lo stesso Temer. Insieme all’attuale ministro degli Esteri, José Serra, Temer è stato accusato dai pentiti nell’inchiesta Lava Jato, la tangentopoli brasiliana.

A differenza di molti parlamentari e senatori (come il presidente del Senato Renan Calheiros, che ha aperto la sessione processuale e che ha dichiarato di volersi astenere dal voto), Dilma non compare in nessuna inchiesta, né è stata chiamata in causa dai numerosi pentiti che cercano di usufruire degli sconti di pena. Il sistema di corruzione coinvolge oltre 50 politici di tutti i partiti: compreso il governativo Partito del lavoratori (Pt), che però non è certo il primo della lista e che invece è stato messo alla gogna dai grandi media, pilotati dalle destre. Dopo Rousseff, l’altro nemico da battere è l’ex presidente Lula da Silva, nuovamente in corsa per le presidenziali del 2018 e favorito nei sondaggi. Lula ha recentemente denunciato all’Onu di essere vittima di una persecuzione giudiziaria.

Intanto, in Brasile proseguono le manifestazioni al grido dei «Fuori Temer». Dopo le contestazioni ai Giochi di Rio, il Comitato olimpico ha proibito le manifestazioni contro il presidente ad interim, pena l’arresto. Un giudice federale di Rio ha però deciso il contrario, proibendo di reprimere le manifestazioni pacifiche, pena una multa di 10.000 reales al giorno per i trasgressori. L’ambigua legge antiterrorismo pone comunque a rischio di pesanti condanne chi viene arrestato prima o dopo le proteste. Un’analoga misura sta prendendo in Argentina Mauricio Macri contro le contestazioni alle sue politiche neoliberiste: identiche a quelle di Temer, che ha fretta di azzerare le misure di progresso portate avanti in 13 anni di governi del Pt. «Se non si ferma il colpo di stato, i danni per il paese saranno devastanti», ha detto Dilma, eletta da oltre 54 milioni di brasiliani.

E ieri, nella giornata mondiale dei popoli indigeni, ci sono state molte espressioni di solidarietà nei suoi confronti. Dagli Usa, anche quella del senatore democratico Bernie Sanders, che ha chiesto a Obama di non restare in silenzio mentre «si calpestano le istituzioni democratiche di uno degli alleati più importanti».