Al protagonista dei Masnadieri di Schiller, Karl Moor, la lettura di Plutarco suggerisce il disprezzo verso la propria epoca, priva di grandi uomini: un amico gli consiglia di leggere allora Giuseppe Flavio. La proposta dimostra acido pregiudizio verso l’autore antico, che non è particolarmente celebre, ma che ha richiamato in epoche diverse l’attenzione della cultura. Il corpus delle sue opere è ampio, e affronta temi controversi: domina, naturalmente, l’ampio racconto di quella che i romani chiamarono «Guerra giudaica», ma per i vinti è la «grande ribellione». Anche le scelte che Giuseppe compì in vita hanno attirato interesse, oltre la cerchia degli antichisti: basta pensare ai tre romanzi di Lion Feuchtwanger che lo hanno a protagonista. Mondadori pubblicò i primi due, con titoli «modernizzati». Prima La fine di Gerusalemme (Der jüdische Krieg), poi Il giudeo di Roma (Die Söhne): ora, ristampato, con ulteriore aggiustamento, come L’ebreo di Roma (Castelvecchi 2015). Il mondo era altra cosa quando, nel 1948, fu tradotto il terzo, Il giorno verrà (Der Tag wird kommen, ma in edizione inglese Josephus and the Emperor).
Gerusalemme, Roma, gli imperatori: le questioni implicate dalla figura e dall’opera di Flavio Giuseppe erano rilevanti in antico, e lo sono rimaste anche dopo. Lo suggerisce, oltre ai romanzi, la massiccia presenza della figura nella ricerca moderna e nella rete. In un sovrabbondante sito a lui dedicato, si dice che Giuseppe fu «a priest, a soldier, and a scholar» (http://josephus.org/). Fu, per verità, anche altro. Càpita, a chi vive tra mondi diversi e contrapposti, in fasi critiche della storia.
Nato verso il 38 della nostra era, Yosef ben Matityahu fu testimone delle tensioni tra i conflittuali gruppi giudaici (zeloti, farisei, esseni), e si trovò poi coinvolto, profondamente, nello scontro fatale con Roma. Dalla rivolta ebraica, che portò alla distruzione del Tempio di Gerusalemme, Giuseppe si staccò: prevista la rovina dei ribelli, passò dalla parte di Roma. Si guadagnò la fiducia del comandante, Flavio Vespasiano, ne profetizzò l’ascesa al trono, e ne ebbe in cambio il nuovo nome, e la cittadinanza romana. Dopo il brusco passaggio di campo, Giuseppe si fece pure storico, in lingua greca, per «difendere l’opera svolta da lui stesso e dal suo partito filo-romano durante la ribellione», ma anche per «illustrare ed esaltare il giudaismo davanti ai pagani» (Arnaldo Momigliano, 1933). Ma la sua figura suscitò un conflitto di opposti giudizi. Chi era? un lucido analista del reale, nemico dei fanatici? un traditore rinnegato? un uomo legato pur sempre alla cultura d’origine? Era «l’ultimo degli ingiusti», come un altro rabbi, che pure in anni recenti finì in Roma una vita unica e controversa? Domande enormi, tanto più che al confronto tra mondo giudaico e Roma s’aggiunge l’ulteriore complicanza del cristianesimo.
Tra simili questioni si muove Luciano Canfora con La conversione Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato (Salerno Editrice «Piccoli saggi», pp. 200, € 18,00). Il nesso tra l’autore antico e i cristiani è punto centrale, e molto controverso: anzitutto perché in uno scritto di Giuseppe si legge una importante e controversa notizia su Gesù, detta appunto testimonium Flavianum. Sull’autenticità e la forma di quella testimonianza dura da secoli un intenso dibattito, che ha generato differenti ipotesi, spesso divisive e talora bizzarre. Oltre a vivaci polemiche erudite, la discussione è stata fatta anche di entrati subdoli intrighi e perfino manoscritti perduti (o mai esistiti). Come in un universo borgesiano: in fondo, un altro romanzo dedicato a Giuseppe è quello dell’argentino Gustavo Rubén Giorgi (El Profeta y El Traidor, Ediciones Proa, 2000).
Il testimonium concerne una questione capitalissima: il riconoscimento, in un testo non cristiano, che Gesù era il Cristo (Giuseppe, Antichità giudaiche, 18, 63-64). Se autentica, ammissione assai notevole da parte di una voce ebraica, e tanto più in un autore che è stato ritenuto «estraneo a ogni esperienza del divino» e sordo ai «fermenti messianici» del tempo suo (Momigliano). L’analisi di Canfora argomenta in favore della tesi che il testo sia interpolato: ma l’intervento per mano cristiana fu possibile perché agiva su una base testuale già, in qualche modo, orientata a trattare il delicatissimo punto in termini di «compatibilità». Indizi conducono infatti a riconoscere in diversi punti, negli scritti di Giuseppe, dei «segnali di interesse» verso i seguaci di Gesù. Gesto ben possibile, dato che lo storico della guerra contro Roma non seguì l’evoluzione del giudaismo dopo la catastrofe del 70: di quel che divenne quel mondo, anzi, egli «non vide», secondo una famosa frase di Momigliano, vari aspetti, forse i più significativi e durevoli.
Ma vi è di più. A fronte del «silenzio compatto» della cultura pagana e di quella ebraica, Giuseppe ebbe invece, per la sua posizione «anfibia», uno spazio nella cultura cristiana dei primi secoli: la quale ha conservato su di lui alcune menzioni favorevoli (Eusebio), altre meno solidali (Ambrogio). Nei suoi scritti, infatti, stavano informazioni importanti relative alla storia di Israele, ma anche alla rivolta antiromana, evento pure decisivo per la definizione del cristianesimo. Meno importanti furono, per gli antichi, le evidenti parzialità presenti nel racconto della guerra. Difficile dire quanto per Giuseppe la scelta di dedicarsi alla scrittura storica derivasse da motivazione personale, ovvero da precisa «commissione» dei Flavi, la gens cui egli doveva la sua seconda vita. Certo è che il racconto della rivolta risulta orientato in forma «gradita a Tito». Lo mostra, per esempio, il fatto che il comando romano appare assolto dalla responsabilità di aver causato la distruzione del Tempio di Gerusalemme: analoga curvatura apologetica assunse, nella tradizione favorevole ai Flavi, il racconto della guerra che portò Vespasiano sul trono imperiale, nel corso della quale si verificò l’incendio che distrusse il tempio sul Campidoglio, a Roma.
L’attenzione per Giuseppe ha conosciuto nel tempo oscillazioni notevoli, anche in ragione degli atteggiamenti verso il mondo ebraico. Al tempo della Riforma, per esempio, le notizie da lui fornite entrarono nelle dispute tra le differenti chiese: ne derivarono, come per ogni aspetto della ricerca sulle origini cristiane, discussioni non «neutrali» (non lo sono, invero, nemmeno oggi). Anche per questi motivi il titolo del libro di Canfora si spiega agevolmente. Giuseppe, attraverso la sua opera, ha affrontato nel tempo differenti e sofferte «conversioni», che hanno di volta in volta privilegiato questo o quell’aspetto della sua vicenda. Alla sua opera si continuano a rivolgere domande: anche la ricerca archeologica sul sito di Masada dipende da Giuseppe per elementi centrali (ora rivisitati da Samuele Rocca, Mai più Masada cadrà. Storia e mito della fortezza di Erode, Salerno Editrice 2021). La ricerca sulle quattro opere pervenute dello scrittore antico è infatti incessante, e lo si vede anche dall’inevitabile Companion a lui dedicato nel 2015: ma ciò non significa che gli studi progrediscano davvero. Appaiono anzi sintomi preoccupanti, che Canfora segnala con taglienti osservazioni. In anni recenti, infatti, la «feticistica devozione al monolinguismo anglico» ha obliterato i «risultati cui era giunta la grande erudizione dei secoli XVI-XVIII (quasi sempre in latino)». L’effetto è che «si riscrive goffamente e con qualche contributo peggiorativo ciò che era stato da secoli prospettato e argomentato con ben altra finezza e disciplina critica» (p. 128). Il «presentismo» tecnologico cancella il lavoro compiuto: ed ecco un (decoroso) saggio del 2014 pervenire a conclusioni già ottimamente raggiunte in un lavoro del 1666. La segnalazione di queste distorsioni non significa l’omaggio a una nostalgia passatista, quanto la denuncia degli effetti prodotti dall’odierno sistema accademico. Se lo studio è sottoposto a misurazioni performative, se importano i numeri, se tutto dipende dal publish or perish, diviene profittevole, anzi necessario, accumulare titolografia abbondante, ma inutile; diviene possibilissimo e naturalissimo saccheggiare serenamente quanto fu scritto in passato. Con l’accortezza, al più, di cavare le idee da lavori scritti nell’antica lingua dei dotti, del tutto opaca per i programmi antiplagio: Latinum est, non legitur.