Ci sono libri che incidono nella memoria tracce indelebili. Dimentichiamo le trame, i personaggi, magari anche i nomi dei protagonisti, non ricordiamo più i finali, ma conserviamo alcune immagini nitide, precise e vivide come fotografie che il tempo non riesce a sbiadire. Chi ha letto alla loro prima apparizione, più di vent’anni fa, i racconti di Geoff Dyer raccolti in Natura morta con custodia di sax, che ora Stile libero ripropone nella traduzione di Riccardo Brazzale e Chiara Carraro (X–334, e15), può forse avere dimenticato quali sono i musicisti cui sono dedicate le «storie di jazz» narrate dallo scrittore inglese, ma certo ricorda l’immagine del sassofonista perduto nella notte in una camera d’albergo inondata dal bianco abbacinante della neve, o quella, devastante, del suo collega abbrutito dalla droga, inebetito in una stanza stracolma di rifiuti e imbrattata dal suo stesso vomito. È questa capacità di trasformare musica e racconto, personaggi reali e storie inventate in incisive rappresentazioni iconiche a fare del libro di Dyer un piccolo classico contemporaneo.

In Natura morta con custodia di sax, in effetti, per raccontare alcuni episodi nella vita di nove tra i più grandi jazzisti americani, Dyer si rifà non solo alla loro musica ma, anche e prima di tutto, alle fotografie che li ritraggono: in questo modo, mentre, come lo stesso autore afferma nella prefazione, il ritmo della scrittura si modella «sulle caratteristiche proprie dell’argomento», le storie raccontate, partendo dal riferimento a una o più foto, acquisiscono una non comune consistenza visuale. Come farà una quindicina d’anni più tardi nel saggio sulla fotografia L’infinito istante (Einaudi, 2008), nelle sue «storie di jazz» Geoff Dyer cerca di andare oltre «l’attimo infinitesimale della realtà» congelato dalla e nella istantanea, per raccontare – o meglio, per immaginare – «ciò che è appena successo e ciò che sta per succedere», oltre il momento dello scatto. Non certo per caso, il libro è dedicato a John Berger, uno dei massimi studiosi viventi di cultura visiva e fotografica. Non solo le miserie, i disastri esistenziali, le ansie e le bassezze dei musicisti ritratti nel libro – Lester Young, Thelonious Monk, Bud Powell, Ben Webster, Charlie Mingus, Chet Baker, Art Pepper, Duke Ellington e Harry Carney – sono rappresentati in immagini indimenticabili: la loro stessa musica è descritta attraverso similitudini e metafore visive.

Autunno a New York suonato da Monk è «una melma brunastra di foglie sotto le scarpe, una pioggerellina invisibile. Aloni di foschia attorno agli alberi…»; Ellington è alla ricerca di una sonorità che corrisponda a «colori come il rosso arroventato di una sera a Santa Fe o lingue gialle di fuoco che lambivano il cielo dell’Ohio»; Ben Webster suona una ballad «come se fosse una creatura così fragile, così infreddolita e prossima alla morte, che solo il calore del respiro può riportarla in vita». E se il modo di tenere le note di Chet Baker fa pensare «al momento in cui una donna sta per piangere, quando la bellezza trabocca dal suo viso come acqua da un bicchiere», per Art Pepper il blues è un uomo solo, in carcere, che pensa alla ragazza che ha perduto, e alla vita che se ne sta andando: tanto dolore, tanta sofferenza, eppure, tanta bellezza, come suggerisce, ponendo l’accento proprio sulla tremenda bellezza di una musica che nasce dalla sconfitta e dalla pena, il titolo originale del libro di Dyer, But Beautiful (Ma bellissimo).

Il jazz è una maledizione che incombe su chi lo suona, un susseguirsi di emozioni che si pagano di persona, un incontro ravvicinato con la solitudine, quella che il musicista «si porta dietro come la custodia di uno strumento» e «quella che ognuno sente dentro di sé, quella che si coglie sui volti smarriti degli estranei in una metropolitana mezza vuota». E poiché la fotografia congela l’attimo in cui queste emozioni, queste solitudini si manifestano nella creazione artistica, lo scrittore si mette in relazione con le foto piuttosto che con gli scritti teorici, convinto che le istantanee, molto più e molto meglio della critica, esprimano l’essenza di quella musica, il «preciso momento creativo».

Anche se l’ esaustiva nota discografica a cura di Luciano Viotto posta in appendice a questa nuova edizione sembrerebbe voler dimostrare il contrario, è evidente che non ci troviamo di fronte a un lavoro rivolto principalmente agli amanti del jazz. Scritto da un autore che ama vantarsi – con le parole del grande fotografo Steiglitz – di essere scrupoloso soltanto nell’essere scrupolosamente impreparato, Natura morta con custodia di sax è un audace tentativo di trasformare, attraverso la scrittura, la musica in immagine e le immagini in suoni, raccontando di uomini caduti, fragili e feriti, della loro «deforme bellezza» e del grido di dolore che li accomuna.