Inizia oggi il campionato di calcio di Serie A, e come ogni anno già a giugno è partita la corsa alle maglie della nuova stagione. Perché si sa gli sponsor tecnici pur di vendere sono disposti a tutto, col rischio di stravolgere addirittura i colori sociali di questa o quella squadra. A questo proposito la storia delle maglie di calcio della serie A e B e forse delle nazionali manca però di uno studio attento, metodico, profondo, che risulterebbe invece utile, doveroso, necessario, non solo perché, come direbbe Oscar Wilde, bisogna trattare le cose divertenti in modo serio (e viceversa), ma anche per il fatto che si tratta di colori sociali che attengono tanto a precipue storie di città, rioni, quartieri, polisportive, quanto a un ragionamento storico-critico, nel quale si possono osservare via via fonti plurime, dalle beghe di campanile alle strategie di merchandising, dalle moderne mitologie alle intrusioni capitalistiche, dalle oscillazioni del gusto persino estetico ai fondamenti di un linguaggio, essendo il calcio una semiologia o sistema di segni, come sostiene, già nei primissimi anni Settanta, Pier Paolo Pasolini, scrittore, regista e mezzala dilettante di ottimo livello.
In mancanza dunque di libri o saggi sull’argomento, vecco che per chi è tifoso o appassionato, oggi, seguire la propria squadra, allo stadio o in tivù, vuol dire vedere gli undici ogni anno con maglie diverse, non solo nella foggia, nel taglio, nella ripartizione cromatica, nel necessario abbinamento a calzoncini e calzettoni, ma diverse anche nei colori sociali e nelle scelte cromatiche delle seconde e delle terze bluse (una volta chiamate maglie di riserva).
Non si sa chi e quando inizi per primo, ma è certo che, a partire dagli anni Settanta (e con sempre maggior frequenza dal 2000 in avanti), le società di calcio si affidano, nel rifarsi il look, a multinazionali dell’abbigliamento sportivo, al cui interno gli stilisti evidentemente non sempre sembrano possedere informazioni sulla storia del football (magari confuso con il rugby all’americana, visto che negli States lo chiamano soccer) o forse nutrono scarso interesse o tragico disamore verso il gioco del pallone, al punto da ignorare alcune regole elementari del vestiario agonistico che, culturalmente, si rifà ai tornei cavallereschi, all’araldica medievale, alla nascita dei vessilli nei liberi comuni (e presso le nobili casate), all’olimpico scambio di gagliardetti prima di un incontro, alle teorie sul colore di artisti e scienziati dall’Illuminismo al Postmoderno.
Trattandosi di aziende italiane (poche) e straniere (moltissime) a progettare maglie, calzoncini e calzettoni per il nostro campionato, sembra improbabile che agli addetti ai lavori – chiamati anche fashion designer – giunga fra le loro mani un vecchio album di figurine Panini, dove le foto a colori degli undici titolari (più tre riserve) in primo piano simbolicamente raccontano un passato glorioso e un insieme organico. Pur connotabili già fra lo show business e la produzione industriale, le maglie di allora sono in grado di rappresentare degnamente una metropoli o un paesino, un territorio o una comunità, persino una fede o una classe sociale.
Oggi, in nome del divertimentificio globalizzato dalla deregulation liberista, sembra tutto lecito, persino negli anfratti più reconditi del sistema identitario calcistico: ridisegnare, rimodellare, riconvertire la maglia, proprio «la maglia» unico elemento che il calciatore si toglie alla fine di una partita, scambiandola con il proprio avversario, sventolandola come una bandiera o gettandola sugli spalti in segno di offerta devozionale ai propri fedeli.
E per capire il «tutto lecito», basta guardare alla nuova divisa della Roma, simile a quella del Portogallo vincitore agli europei: il giallorosso è ripartito allo stesso modo dei lusitani rossoverdi: il colore «minoritario», spostato ai soli calzettoni giallo/arancio, a mezzo colletto e a numeri e nomi sulle spalle; ma quale gialli e quali rossi? Un tessuto a righine tendente all’ocra per i primi, al granata per il resto: impossibile distinguerli dagli amici/rivali del Torino (ma già dal prossimo anno è stato annunciato dalla società capitolina il ritorno ai colori sociali originali, oro e porpora).
Purtroppo non si tratta di un caso isolato, ma, in ordine di tempo, dell’ultimo anello di una lunghissima catena che inizia, forse, con il Cagliari di Gigi Riva e che al momento termina con l’Inter deludente di Erick Tohir; per la conquista del primo e unico scudetto (1969-70) il team sardo alla consueta divisa metà rossa metà blu, ne preferisce una tutta bianca con minuscoli risvolti bicolori; si tratta ovviamente della seconda maglia indossata per scaramanzia lungo l’intero torneo sino al meritatissimo primo posto finale.
Nel corso degli anni invece c’è chi ripudia i colori iniziali, magari per ragioni fortuite o contingenti: la Juventus inizia in camicia rosa fabbricata artigianalmente, ma quando ordina in Inghilterra i completi professionali, arriva per sbaglio a Torino un baule con le maglie per il Newcastle, di cui dirigenti e giocatori si innamorano all’istante: e allora saranno per sempre le Zebre o i Bianconeri, nonostante la B e due titoli revocati, proprio quando come seconda maglia scelgono il tricolore (con prevalenza del rosso Ferrari) quasi a identificarsi presuntuosamente con il football italiano medesimo.
Restando sui colori modificati, il Genoa dei primissimi scudetti è prima bianco, poi biancoblu, mentre l’aggiunta del rosso (in origine granata) arriva in memoria della regina Vittoria, essendo il club fondato da britannici, come si evince fin dall’inglesizzazione del nome societario.
Sulle maglie del Palermo circola invece una leggenda metropolitana: in principio anch’esse rossoblu, diventano rosanero per un lavaggio scorretto e per i tessuti scadenti: insomma prima del ferro da stiro, il blu si scurisce ulteriormente, mentre il rosso quasi imbianca. Ma c’è chi invece, di proposito, i colori li stravolge ex abrupto: negli anni Ottanta il Parma di Arrigo Sacchi (e poi di Nevio Scala) che dalla D giunge alla A collezionando Coppe in Italia e in Europa, si presenta nella massima serie in polo gialloazzurra a strisce orizzontali, rinnegando la storica originalissima tenuta bianca e croce nera, che verrà ripristinata solo di recente, lasciando gli altri due colori per le seconde maglie.
Oltre la colorazione, una pessima abitudine contemporanea è l’imbastardimento delle proporzioni cromatiche, la cui forma risale, talvolta, come detto, agli stemmi comunali o ai simboli araldici. Stando a ricerche più o meno esaurienti, fra le circa 200 squadre transitate fra la A e la B, prevalgono le maglie a righe verticali bicolori, seguite dalla tinta unica bordata di un altro colore; a differenza delle nazionali di altri paesi, decisamente minoritarie sono le divise a tre colori, benché la blucerchiata Sampdoria ne abbia persino quattro, essendo la fusione di due vecchie squadre, Sampierdarenese e Andrea Doria, rispettivamente biancazzurra e rossonera.
Purtroppo il pubblico appare ormai assuefatto alle opinabilissime modifiche volute in fondo per incrementare il redditizio merchanding a ogni stagione: a controbilanciare i tifosi del Genoa che sei anni fa obbligarono la dirigenza a ripristinare la casacca a quarti contro la novità a scacchi, restano quelli dell’Inter indifferenti all’uniforme grigioblu dell’era Tohir, giustificata quale mescolanza del nero con l’azzurro per un nuovo colore: triste metafora indiretta per osservare come oggi tutto viene mischiato nella ridondanza, nello stupore, nell’aleatorietà, senza certezze o garanzia nemmeno di fronte ai colori-simbolo di una maglia.