Una maga nera. Una ragazza terribile, capace di soggiogare gli dei, di governare il cielo e le stelle. Medea è in grado di far tremare lo stesso Giove. La sua voce, penetrante, decide della vita e della morte, guida il destino. Da sacerdotessa di Diana compie sacrifici umani. ‘Mormora’ formule, i carmina, che a nessuno è concesso conoscere e brucia erbe i cui stessi nomi devono restare segreti. Un personaggio che inquieta e spaventa, interroga e intriga.

Cartagine, seconda metà del V secolo d.C. Tra gli allievi, romani e barbari insieme, della scuola del grammatico Feliciano, spicca un giovane, destinato alla carriera forense. Si chiama Blossio Emilio Draconzio ed è a lui che dobbiamo questa caratterizzazione di Medea, contenuta nei primi versi di un epillio in 601 esametri, a noi giunto nella sua raccolta di opere pagane, nota con il nome di Romulea.

Allenato alle scuole di retorica e convertitosi al Cristianesimo, per un certo periodo incarcerato in seguito a un misterioso error che lo aveva reso inviso al re vandalo Gunthamondo, Draconzio è un autore complesso, che attinge ai diversi rivoli delle tradizioni mitografiche, ma si concede anche qualche significativa innovazione. La sua Medea – di cui Fabio Gasti offre ora una riuscita traduzione italiana, con note introduttive e di commento, per i tipi della milanese La Vita Felice (collana «Saturnalia», testo latino a fronte, pp. 173, euro 11,50) – costituisce un punto prospettico ottimale per cogliere alcuni aspetti della ricezione di questo mito nel mondo latino.

Quella di Medea è una figura che non si lascia facilmente domare entro i confini dei singoli generi letterari: nel proemio di Draconzio le muse della pantomima, Polimnia, e della tragedia, Melpomene, invocano il supporto quasi militare dell’epica Calliope (ad sua castra petunt, «ti chiedono di giungere nei loro accampamenti», Gasti). Episodio dopo episodio, l’avvincente cornice del racconto lascia intravvedere le tessere di un mosaico in cui i materiali tradizionali risplendono agli occhi del lettore erudito e allo stesso tempo danno risalto alle scelte più rare.

La vicenda inizia con l’arrivo di Giasone in Colchide: è la prima sezione della storia, ispirata da Polimnia. L’innamoramento repentino di Medea, sacerdotessa di Diana in procinto di sacrificare lo straniero sull’altare, è iconicamente rappresentato dalla freccia di Amore e dal pugnale che cade a terra. Seguono, immediate, le nozze, funestate da un’infausta profezia della dea tradita. Trascorrono quattro anni, nascono due bambini. Siamo ancora in Colchide. Ma Giasone desidera rivedere la Grecia, e Medea decide di partire con lui. Al poeta bastano sei versi per narrare i fatti, resi celebri soprattutto dall’epica alessandrina di Apollonio Rodio e (in parte) da quella flavia di Valerio Flacco: l’incantesimo del draco; il furto del vello; l’uccisione del fratello Absirto; la fuga, con il dettaglio nuovo dei bambini portati in braccio dai genitori.

Cambio di scena. Si prepara la sezione tragica del racconto. Siamo a Tebe, e non a Iolco e poi Corinto come da tradizione. La scelta è pienamente consapevole, spiega Gasti nel suo commento (sintetico ma sempre esauriente): Tebe è la patria di Cadmo, i cui ‘nati dalla terra’ assomigliano a quelli contro cui Giasone combatte in Colchide; ma, soprattutto, Tebe è la patria di Agave, baccante e madre assassina, e ancora di Laio e dei Labdacidi, famiglia maledetta dai delitti tra consanguinei. È qui che Giasone accetta felice le nozze con la figlia del re Creonte, Glauce (Draconzio sceglie il nome più raro per la ragazza, in genere chiamata Creusa). A questo punto Medea, che già aveva intuito l’ingratitudine, diventa furens. La sua invocazione a Diana è una preghiera e insieme un’ammissione di colpa, e si conclude con la richiesta di aiuto per portare a termine il suo piano: cinque vittime saranno sacrificate per espiare il crimen. È il momento della magia nera. Invocate, ecco arrivare le Furie, «i serpenti fra i denti di vipera fanno vibrare il loro sibilo» (v. 466). Esse assistono come testimoni alla firma delle tavolette del contratto nuziale, un particolare della reale prassi giuridica romana. Nel frattempo la maga prepara la corona che causerà l’incendio della reggia, in cui bruciano poco dopo, uno dopo l’altro, Glauce, Giasone e Creonte. L’infanticidio completa la vendetta, realizzando al contempo la piena espiazione di Medea, che – diversamente dalle altre versioni, Seneca in particolare, in cui Giasone era invocato come spectator di morte – è rimasta sola con i figli dopo aver ucciso il marito. Mermero e Ferete, questi i nomi dei bambini noti anche dalla tradizione mitografica, invocano l’aiuto della mamma, spaventati dalle fiamme. Medea però, furibunda, è pronta a immolare i figli dopo aver invocato gli dei, e con un solo colpo di spada li uccide entrambi. Come da consuetudine, la conclusione della vicenda è affidata alla fuga di Medea sul carro, qui particolarmente spaventoso e terribile.

Questa Medea di V secolo è un personaggio ricco e sfaccettato, espressione della nuova complessità culturale tardoantica e allo stesso tempo erede di tradizioni precedenti. Se si guarda indietro alla presenza letteraria del mito a Roma, alcuni dati sono particolarmente rilevanti. Anzitutto l’importanza della magia. Il calderone di Medea che ringiovanisce Esone nel VII libro delle Metamorfosi ovidiane, con indimenticabili dettagli come quello dei fiori che sbocciano al contatto casuale con le gocce bollenti dell’infuso, ne costituisce un esempio tra i più significativi. Ma probabilmente già nella tragedia di età repubblicana l’eroina era rappresentata come una maga guaritrice, che, con lessico sacrale, si dichiarava capace di liberare qualcuno da una disgrazia (possum ego istam capite cladem averruncassere, «io posso allontanare questa calamità dal tuo capo», in un frammento del Medus di Pacuvio). Le fonti sottolineano poi la parentela con Circe e i rapporti con Angitia, la dea marsica dei serpenti. E da serpenti alati è trainato il carro che la conduce via sul finale delle tragedie di Euripide e di Seneca e di cui abbiamo traccia in una serie di frammenti di Pacuvio: scena patetica e irrinunciabile per i poeti (Draconzio compreso), ma anche molto criticata in diverse fasi della latinità, dalla satira di Lucilio fino ad Agostino.

Una maga potente che non sa usare la sapientia a proprio vantaggio, e soccombe dinanzi alla forza irresistibile di Amor. Anche questo è un tema fortunato della letteratura latina, espresso icasticamente in un verso della Medea exul di Ennio (qui ipse sibi prodesse non quit, nequiquam sapit, «chi, sapiente, non può essere di vantaggio a sé stesso, sa invano») e successivamente sviluppato in età augustea e nelle Argonautiche di Valerio Flacco.

Infine il furor, forse la più attesa tra le caratteristiche di Medea. La rappresentazione più chiara e completa del suo razionale furore ci è offerta dalla tragedia senecana, importante precedente per l’epillio di Draconzio. In essa, come già nella perduta tragedia di Ovidio (feror huc illuc, vae plena deo, «sono trascinata di qua e di là, ahimè, invasa dal dio») Medea furente è cruenta come una baccante (cruenta Maenas). E proprio alle baccanti si fa riferimento nell’epilogo dell’epillio draconziano, in cui il poeta torna a parlare dei crimini tebani e riconduce a «un’etica religiosa generica, universale» (così Fabio Gasti), insieme pagana e cristiana, il senso profondo della sua operazione artistica e letteraria.

Nel prologo il poeta aveva dichiarato solennemente (fert animus, di evidente ascendenza ovidiana) di voler «divulgare un atto nefando», vulgare nefas. In questo ossimoro, con cui si esprime la diffusione di qualcosa che in realtà non può essere detto (nefas), sembrano racchiusi gli interrogativi, ma anche tutto il fascino che suscita la figura tradizionale di Medea: una potente maga che cede all’amore e, una volta delusa, è lucidamente invasa dal furor, sino al sacrificio dei figli.