Lingui racconta, come ci suggerisce il titolo italiano, la storia di «una madre e di una figlia» a N’Djamena, capitale del Ciad, dove la vita per le donne sole, che hanno scelto di crescere una figlia o un figlio senza un marito significa emarginazione e solitudine. Amina, la protagonista, (la bravissima Achouackh Abakar) è stata ripudiata dalla famiglia per questa ragione, abita in una periferia gialla di polvere, e per far studiare Maria (Rihane Khalil Alio), la figlia adolescente, fa i conti ogni giorno coi soldi che mancano, con le avances untuose del vicino di casa assai timorato di Maometto che vorrebbe sposarla, con l’imam che le fa la morale, con quella strada assolata su cui raccoglie pneumatici dai quali estrae il filo di ferro che trasforma in panieri intrecciati, prodotti di un artigianato che nei negozi di lusso sarebbe proposto a molti soldi, ma che lei da ambulante vende per poco agli automobilisti. Poi accade qualcosa, la figlia si fa scontrosa e ammutolisce, chiusa nella sua stanza comincia a stare male: cosa le è accaduto? Non sarà difficile per una madre scoprirlo, la sfida sarà invece come far fronte a quella gravidanza e alla richiesta della figlia di abortire.

È DUNQUE DI ABORTO che parla il secondo film di Mahamat-Saleh Haroun, regista ciadiano narratore sin dall’esordio con Bye Bye Africa (1999), premio per la migliore opera prima alla Mostra di Venezia – e Daratt – La stagione del perdono (2006) che vincerà il premio speciale della giuria – del suo Paese, il Ciad, dove cattura negli interstizi di ingiustizia, corruzione, machismo spacciato per religione quei conflitti presenti e passati, i segni di un colonialismo e di un post-coloniale ugualmente feroce che riguardano l’Africa intera, e molto del nostro tempo. Che se a N’Djamena è impossibile abortire – si può solo pagando e di nascosto a rischio di galera per pazienti e medici – in America le leggi in molti Stati non sono migliori. Amina non ha i soldi ma per la ragazzina quella gravidanza significa una condanna all’emarginazione, a scuola l’hanno già cacciata, non vogliono cattivi esempi per le altre – poi come dice la direttrice rovina la reputazione dell’istituto – e l’Islam condanna. Come fare?
La lotta di Amina, sfiancante, disperata, su e giù per la città, alla ricerca di una soluzione è il centro narrativo, e seguendo i suoi passi nella rete di ipocrisie e di violenze quotidiane Haroun pian piano allarga la lente: l’aborto vietato si fa così espressione e denuncia di un sistema sociale di sopraffazione maschile sul corpo delle donne, di molestia, di stupro, della complicità religiosa nell’esercizio costante di un abuso, a cominciare dall’escissione, trasformato in legge e in morale.

È OGNI SUA IMMAGINE la risposta alla necessità di rompere il silenzio, di denunciare, che si traduce in una cifra poetica quasi didascalica. Un po’ nella lezione rosselliniana di un cinema che deve insegnare – e che può essere strumento di consapevolezza laddove come accade in Africa l’analfabetismo è diffuso – il regista fino a rendere i personaggi quasi delle figure «esemplari», archetipi di una realtà, col rischio di comprimere nella scrittura (dello stesso Haroun) il respiro del film. Che trova però le sue vie di fuga nello spazio trasfigurato in cui si muovono le donne, il blu cobalto e il giallo oro che le circonda, i labirinti di tufo e le strade di terra, che lo rendono segreto e indefinibile . È lì che vive la resistenza del femminile, quasi clandestina, una forza obliqua e potente che sposta la linea narrativa in territori inattesi, infondendogli il respiro della libertà. Un’utopia e una promessa, il gesto di una battaglia quotidiana che si reinventa nell’immaginario.