«Non è stata un’autopsia ma una macelleria».
Il legale della famiglia di Salvatore Failla, Francesco Grimaldi, non usa mezze parole e ripete che i fatti confermano i peggiori timori delle famiglie dei due tecnici uccisi in Libia. Il sospetto è che non si tratti di volgare incompetenza ma di una deliberata cancellazione delle tracce: «È stato fatto qualcosa per eliminare l’unica prova oggettiva per ricostruire la dinamica dei fatti».

Qualche conclusione dall’autopsia ripetuta a Roma è possibile trarla comunque. I due ostaggi sono morti nel corso di un conflitto a fuoco, come provano le numerose ferite sulla parte anteriore dei corpi. Non è stata un’esecuzione. Le salme sono però state lavate a Tripoli, gli abiti che indossavano al momento della sparatoria sono scomparsi, il prelievo di alcuni tessuti corporei rende difficile identificare le armi usate contro di loro, anche se gli esperti ritengono di poter raggiungere lo stesso risultato attraverso l’analisi dei frammenti di proiettile recuperati nelle salme.

Nel complesso, dalla ricostruzione dell’avvocato dei Failla appare evidente che il recupero dei corpi, il chiarimento della dinamica della tragedia e persino il ritorno in Italia delle salme sia stato ostacolato in ogni modo. I soldati libici avrebbero addirittura spianato le armi contro gli italiani per costringerli a consegnargli i corpi, particolare certo inquietante sul quale il ministro degli Esteri Gentiloni evita di sbottonarsi: «Se ne sta occupando la magistatura e da parte nostra c’è il massimo riserbo».

Gli ostacoli frapposti dai libici ai tentativi di chiarire i fatti sono un ulteriore elemento che accosta questa vicenda a quella della liberazione di Giuliana Sgrena e dell’uccisione di Nicola Calipari a Baghdad, nel 2005. Allora per l’Italia fu difficilissimo entrare in possesso dell’auto crivellata di colpi sulla quale viaggiavano l’ostaggio e il liberatore. Fu restituita solo dopo essere stata “ripulita”. In questa occasione la stessa cosa è successa, in modo ancora più crudo, con i due cadaveri.
Le salme, dopo giorni di attese e rinvii, erano rientrate a Fiumicino nella notte tra mercoledì e giovedì. In una conferenza stampa organizzata poco prima nello studio dell’avvocato Rosalba Castro, la vedova di Salvatore Failla, che ha rifiutato i funerali di Stato, ha fatto ascoltare l’ultimo contatto con il marito, del 13 ottobre scorso: un messaggio registrato nel quale Failla chiedeva di mobilitare i media e lamentava di essere stato abbandonato. Gli italiani, da quel momento, chiesero però alla donna di non rispondere più al telefono per non danneggiare le trattative.

Dalla telefonata sembrerebbe che uno dei rapitori masticasse un po’ d’italiano, ma Filippo Calcagno, uno dei due superstiti, lo ha escluso. In compenso è probabile che le registrazioni venissero poi fatte controllare da qualcuno che conosceva la nostra lingua, per accertarsi che non venisse detto nulla di diverso da quanto dettato dalla banda.
Sul fronte dei preparativi bellici, dopo il “chiarimento” di mercoledì di fronte al Senato e al Copasir, è calato quel silenzio che il governo si augurava da giorni. A parlare di Libia è invece il presidente degli Stati uniti, in una lunga intervista a The Atlantic nella quale Obama rivendica la decisione di non bombardare Assad in Siria ma ammette il fallimento della guerra del 2011 contro Gheddafi. La sua è un’analisi lunga e dettagliata, all’esatto opposto delle frasi sbrigative con le quali il principale responsabile di quella scelta disastrosa in Italia, Giorgio Napolitano, ha liquidato la faccenda nel suo intervento dell’altro ieri al Senato.

Obama spiega le motivazioni che lo spinsero ad appoggiare allora l’intervento della Nato: evitare che il Paese precipitasse nel caos. Ma riconosce il fallimento: «Nonostante tutto la Libia è un caos». Anche se, a suo parere, con l’intervento si sono evitate «vittime civili su larga scala e quasi certamente una prolungata e sanguinosa guerra civile». Il presidente parla anche delle pressioni dei Paesi europei e del Golfo, per concludere con notevole amarezza: «La gente ci spinge ad agire ma poi non mostra disponibilità a rischiare la propria pelle».

Anche se non era certo questo l’intento dell’intervista, le parole di Obama spiegano le tensioni di questi giorni tra il suo Paese e l’Italia a proposito dell’eventuale missione in Libia. Gli americani non sono più disposti a sostenere il maggior peso, con gli alleati in funzione di rincalzo e appoggio. Se ci sarà una guerra in Libia dovrà essere europea. Soprattutto italiana.