Tra i fitti incontri della Digital Week, la Triennale di Milano ha ospitato anche la lezione di Carlo Sini, il cui tema riprendeva uno dei suoi lavori dedicati al rapporto tra tecnologia e umanità, quel libro dal titolo L’uomo, la macchina, l’automa (Bollati Boringhieri). Pubblicato ormai qualche anno fa, il volume è tornato di attualità grazie agli sviluppi più recenti dell’intelligenza artificiale, che ci interrogano con sempre maggiore urgenza sul nostro vivere comune.
La tesi principale consiste nel concepire l’essere umano come automa culturale, e la cultura come tecnologia che, attraverso le differenti scritture date storicamente, «ominizza» i viventi. A questo proposito Sini parla di «strumenti esosomatici»: uno per tutti è la parola che nomina e descrive, permettendo all’essere umano di costruire una mappa del suo agire. L’essere umano è dunque il prodotto del linguaggio più che il produttore dello stesso. Mostra di pensare da sé ma può farlo solo in virtù delle possibilità intrinseche alla quantità sterminata degli attrezzi linguistici di cui si è dotato. L’uomo è così un automa perché la sua azione è orientata alla cultura. È la cultura che parla per lui e «lo» muove.

Fondamentale è, dunque, comprendere cosa voglia dire automa. Per il filosofo è ciò che si muove o pensa da sé. Nell’uso corrente, si applica a congegni e produzioni macchiniche che simulano di muoversi da sé. Se suscita inquietudine è perché mima l’uomo. Da qui, gli equivoci e le superstizioni intorno all’automazione.
Ma cosa significa affermare che la parola è uno strumento esosomatico? Un esempio che Sini ama molto è quello dello scimpanzé e del pezzo di legno. Secondo lo studioso, l’animale che usa un bastone, non sta utilizzando uno strumento perché qui il bastone è sì agito ma non saputo. A riprova di ciò, lo scimpanzé abbandonerebbe il bastone, una volta finita la sua funzione. In questa prospettiva, uno strumento è considerato come tale quando chi lo maneggia si riconosce tramite esso. Sini parla di strumento esosomatico, perché l’esteriorizzazione del corpo, che si cosalizza per esercitarsi nelle sue azioni vitali, si trasferisce in un oggetto materiale. Qualcosa parte dal corpo, si proietta fuori e diventa un fenomeno esosomatico, una specie di specchio che permette a chi usa lo strumento di riconoscere la propria azione. In questo senso si può parlare di cultura come di una macchina esosomatica composta dall’alfabeto, la scrittura e l’insieme delle creazioni realizzate dall’essere umano nella sua storia, comprese le diverse macchine comunemente intese. Nella prospettiva del filosofo, l’essere umano si può concepire come automa che si forma attraverso la cultura e che, allo stato attuale di avanzamento tecnologico, è probabile che sarà presto in grado di costruire delle macchine in grado di pensare. Attenzione però: solo se per pensare intendiamo calcolare e dedurre, analizzare, suddividere ogni cosa in elementi discreti, avviare algoritmi e procedure in sé finite. Quello che una macchina non farà mai è vivere, perché non è in grado di ricordare e sbagliare, non può dimenticare per ricordare (e quando, e se lo farà, non sarà più una macchina).
Prima dell’incontro alla Triennale, abbiamo rivolto alcune domande a Carlo Sini.

Quando si parla di tecnica anche i pensatori più raffinati tendono a porre sullo stesso piano il martello, l’abilità dello scultore, la fabbrica, l’automazione e la tecnologia informatica. Non sarebbe meglio parlare di «tecniche» (al plurale) e operare distinzioni più accurate?
Le distinzioni sono una gran bella cosa ma, a volte, non servono molto perché si rivelano essere distinzioni di un sottofondo unitario. Può essere più utile cercare di andare in profondità. D’altro canto, il problema della filosofia non è quello di analizzare le distinzioni, per questo ci sono i saperi situati dei tecnici e degli esperti. Ciò che dobbiamo chiederci è cosa sia la tecnica. Nella mia ottica è fondamentale lo strumento esosomatico. Cosa succede quando un ominide si serve di uno strumento? Quali conseguenze ha avuto questo gesto nella storia dell’essere umano?.

Alcuni filosofi – per esempio Heidegger ne «La questione della tecnica» – distinguono tra diversi possibili impieghi. Celebre la differenza che si pone tra un mulino e una diga, in quanto a impatto e sfruttamento del mondo della natura. Altri si sono rivolti all’analisi della tecnica industriale tipica del capitalismo avanzato (i francofortesi). Non c’è un rischio di immaginare la tecnica come un destino ineluttabile?
La risposta è complicata. È un destino sì, ma mi trovo in disaccordo con Heidegger: l’uomo e la tecnica non sono due cose distinte che si dovrebbero armonizzare una volta risolto il problema ontologico.
La mia tesi è questa: non esiste l’essere umano se non in quanto capace di usare strumenti, linguaggio. Non siamo niente senza la tecnica.

Pensatori come Günther Anders o Jacques Ellul, per quanto acuti osservatori e critici lungimiranti della tecnica, non sembrano offrire molte alternative. Un autore come Ivan Illich, invece, scrive: «Lo strumento conviviale è quello che mi lascia il più ampio spazio e il maggior potere di modificare il mondo secondo le mie intenzioni. Lo strumento industriale mi nega questo potere; di più: attraverso di esso, è un altro diverso da me che determina la mia domanda, restringe il mio margine di controllo e governa il mio senso della vita». Che ne pensa?
Sono un ammiratore di Ivan Illich. Esiste un progresso indiscutibile delle conoscenze e degli strumenti. Lo sviluppo delle macchine funziona in questo modo, nuove macchine implicano e «chiamano» quelle di domani. Viviamo in una complessità crescente. Ci sono possibilità e limiti. Penso agli strumenti come a qualcosa che opera una mediazione tra l’essere umano e il mondo, che viene dal mondo ma è staccato dal mondo. Penso alla parola e alla scrittura come una tecnologia creata dall’essere umano e che ritorna a quest’ultimo, formandolo.
Quello che Illich definisceconviviale per me richiama il discorso, lo strumento linguistico. E quindi la comunità del discorso. Il linguaggio non dice gli oggetti, «dice» la comunità. La natura dello strumento discorsivo come lo strumento esosomatico permette alla comunità di articolare un pensiero politico che le consente di affrancarsi dalla logica del capitale. Dobbiamo stabilire politicamente il senso dell’economia.

Philip K. Dick, in un suo scritto, dà vita a un paradosso. Immagina una scena in cui, in un futuro non troppo lontano, un automa e un essere umano si affrontano e si sparano a vicenda: solo che dal corpo dell’uomo si alza un filo di fumo, perché il proiettile ha colpito una sua parte meccanica, e dall’automa esce un rivolo di sangue, perché i robot si sono evoluti per somigliarci sempre di più. Da qui la domanda di Dick: cosa ci distingue dall’automa e cosa ci rende umani? Qual è la sua posizione a riguardo?
Quello che distingue un automa da un essere umano è la memoria. Possiamo trasferirla, lo facciamo continuamente con la scrittura, prima ancora che con le tecnologie contemporanee. Ma la trascrizione, per quanto accurata, è sempre altro rispetto all’esperienza concreta e alla sua memoria, perché l’essere umano è il depositario e il corpo vivente di tutta la catena biologica che ci ha condotto qui. C’è bisogno di tutta la memoria dell’intelligenza umana per riprodurre un automa identico a un essere umano, ma la memoria è un fatto biologico e culturale. Ha a che fare con la distanza del sapere dalla vita.

*Gruppo Ippolita

 

SCHEDA

La seconda edizione di digital Week a Milano (fino a oggi), promossa dal Comune di Milano e realizzata in collaborazione con Cariplo Factory, Iab Italia e Hublab, ha previsto seminari, incontri, mostre e performance, per 500 eventi diffusi sul territorio (sede Base e altrove). Il tema quest’anno è «Intelligenza Urbana», in riferimento alle tecnologie trasformative e al loro impatto sociale, soprattutto per quanto riguarda la città, il lavoro e le relazioni umane. Obiettivo è promuovere l’alfabetizzazione digitale, con particolare attenzione agli ambiti produttivi. Sponsor principale Intesa Sanpaolo. Una grande kermesse che corre il rischio di promuovere acriticamente le innovazioni più disruptive favorendo dinamiche di delega sociale alle nuove tecnologie e ai loro padroni.