Racconta Alberto Fasulo che quella del Menocchio è una storia che si porta dietro da molti anni, dai tempi di scuola, quando per la prima volta aveva sentito parlare di Domenico Scandella, detto Menocchio, un mugnaio e contadino di Montereale Valcellina, in Friuli, processato dalla Chiesa con l’accusa di eresia, costretto all’abiura per salvarsi la vita, liberato e quindici anni dopo il primo processo condannato al rogo perché recidivo, la cui vicenda è al centro del saggio di Carlo Ginzburg Il formaggio e i vermi.

Siamo alla fine del Cinquecento, gli anni feroci dell’Inquisizione,la chiesa cattolica reprime qualsiasi forma di pensiero che minaccia i suoi dogmi specie in quei luoghi, come la Repubblica di Venezia, lontani e in apparenza più autonomi. Qualcuno denuncia Menocchio che da decenni critica la chiesa della ricchezza, del potere, di un papa lontano ignaro delle vite di loro contadini. Quella chiesa che coi suoi fasti afferma la divisione del mondo tra poveri e ricchi nell’illusione di un «paradiso» riservato ai poveri solo da morti. Eppure lui, Menocchio, non è un senza dio, al contrario dio lo vede in tutto ciò che c’è, nei bimbi che corrono, nel vento, nell’aria, negli alberi. La sua spiritualità è pura, limpida, professa la libertà contro il controllo, la vita con dignità e rispetto per ciascun essere umano contro la schiavitù dell’oppressione e dell’ignoranza, le proprie idee contro una pratica che trasforma dio nell’esercizio del potere. Senza eccezione alcuna. Nel clima di violenza, sospetto, delazione del suo tempo quell’uomo appare come una pericolosa minaccia: è povero ma non è ignorante, sa leggere e scrivere cosa che ai prelati sembra impossibile, visto che è solo un contadino. Ha una sua visione del mondo che afferma con ostinata pacatezza, il villaggio lo ascolta e partecipa al suo pensiero, ne condivide il sentimento di ingiustizia. È dunque una storia di resistenza al potere quella di Menocchio? O c’è qualcos’altro nella sua figura, qualcosa che va oltre il contesto storico della vicenda?

Su questo scarto ha lavorato Alberto Fasulo per il suo nuovo film, Menocchio, unico titolo italiano in concorso a Locarno, che non è un film storico né un biopic pure se i titoli di testa ci dicono che il lavoro di scrittura – Fasulo è autore della sceneggiatura insieme a Enrico Vecchi – ha accumulato ricerche, studi, materiali storiografici, consulenze a partire dai verbali dei processi contro Domenico Scandella – l’opera di Andrea Del Col Domenico Scandella detto Menocchio. I processi dell’Inquisizione (1583-1599). Questo perché Fasulo, uno dei migliori talenti nelle generazioni più giovani del nostro cinema, sin dal suo film d’esordio, Rumore bianco, ha mostrato la rara capacità di andare oltre la materia del racconto, di saperne cogliere le angolazioni più remote attento all’ascolto – letteralmente forse per la sua passata esperienza di lavoro nel suono – di ciò che le sue storie racchiudono, degli universi possibili che aprono, di quanto il cinema può agire al loro interno.

Menocchio racconta un territorio, una terra, il Friuli del regista, e la sua lingua, a cui attingono mischiando senza filologia da sceneggiatura i dialoghi del film, friulano e veneziano, il dialetto «duro e antico» dei paesi intorno a Erto, da dove viene il magnifico protagonista, che dà corpo a Menocchio, Marcello Martini, appena andato in pensione dal suo lavoro di guardiano della diga. Non è un attore e non lo sono molti altri protagonisti del film, Fasulo ha mescolato gli abitanti della zona e dei professionisti, per esempio l’Inquisitore Maurizio Fanin o il prete amico di Menocchio Mirko Artuso, come se ciascuno portasse al presente quell’esperienza nelle proprie vite restituendo una memoria viva. Più Rossellini che Dreyer, Fasulo si muove in orizzontale lungo la linea tracciata dalla spiritualità antagonista (quasi francescana) del suo Menocchio, una linea che segue gli uomini e il mondo, comprese le loro contraddizioni, senza eroismi e grandi gesti se non quello di un’affermazione collettiva della propria esistenza. Abiura Menocchio e perciò va mal giudicato?

Ma come diceva Malcolm X, «con ogni mezzo necessario» si fa una rivoluzione e quell’abiura lascia sottotono le parole di pentimento per quasi affermare di fronte agli inquisitori trionfanti le sue di parole, le parole di un cambiamento profondo. Sono le sfumature che contano non la frontalità del narcisismo, e lo sa bene Fasulo che modula ogni passaggio sul filo teso di un scontro mai ideologico, o astratto, ma costruito come Menocchio fa nell’esperienza di ogni giorno. Finzione, documentario non sono categorie che interessano il cinema di Fasulo; la sua è una narrazione cinematografica che esalta ogni dettaglio, che ci conduce dentro alle cave dove la chiesa poco misericordiosa rinchiude e tortura i suoi prigionieri, filmando (come Kubrick in Barry Lindon) a lume di candela, o che si sofferma sulle mani, sui volti antichi, sulla fatica del lavoro sfruttato – sempre in nome di grandi ideali religiosi. Che lascia il primo piano agli occhi chiari del suo Menocchio col suo dolore che diventa anche una sfida.

Questo fare cinema sul confine, in cui gli stracci o le cuffie dei prelati sono l’ unico accenno dell’epoca che diviene subito universale, è il segno che attraversa i suoi film, in modo diverso ogni volta, da quel primo Rumore bianco, che era anch’esso un racconto del suo Friuli, a Tir, con lo stridore provocato dalla messinscena tra «finzione» e «realtà». Menocchio (prodotto ancora una volta dall’inarrestabile Nadia Trevisan) è sì un film sul potere, sulla chiesa, sulle religioni come forma di controllo delle classi più povere nei secoli e illusorio strumento di affermazione (come non pensare ai massacri e alle collusioni tra poteri della chiesa dittature economie rapaci repressioni) ma in questo interroga il rapporto tra individuo e comunità, e soprattutto si chiede cosa significa assumersi delle responsabilità come cittadini e come esseri umani.

Lo fa in modo semplice cioè raffinatissimo perché afferma una grande regia «politica» che mai sente il bisogno di sfoggiare virtuosismi. Quella comunità che era intorno a Menocchio sarà la prima a abbandonarlo per paura, per salvarsi non l’anima ma la vita, per comodo o perché non in grado di opporre altro che balbetti alla sicurezza ricca e arrogante degli Inquisitori. Non è quanto accade oggi con l’alzata di spalle del «passerà» o del «tanto meglio tanto peggio»? Il «noi» e il «loro» con cui ci si sottrae, è sempre «colpa» di qualcun altro, senza assumersi una responsabilità che non è aderire a questo o a quel partito ma è un modo di agire, di vivere, di essere nell’esistenza di ogni giorno. Menocchio cede strategicamente guadagnando altri anni per minare il territorio del potere, Fasulo distilla nelle sue immagini la stessa grazia destabilizzante, il gesto di una resistenza che si fa cinema.