Esiste un luogo dove gli abissi affiorano e incontrano l’uomo. È un luogo di vita e di morte, di lavoro e di religione. All’inizio è solo un accenno, un incresparsi dell’acqua, gli immensi dorsi degli animali si intravedono dalla superficie e escono solo le pinne caudali. Poi i pesci, giganteschi, ammassati in spazi sempre più ristretti, si agitano convulsamente, escono dall’acqua e la squassano.

IL TEMPO È SCANDITO dal ritmo delle cialome – canti antichi di cui si è perso, a volte, il significato originario. Echi arabi e dialetto siciliano intersecano il battere del canto che accompagna il levare delle reti. Battute che segnano il lavoro degli uomini agli ordini del Raìs, il capo – anche questa una parola araba – che dà gli ordini ai tonnaroti – i pescatori – con gesti e fischi per sovrastare il rumore del mare, del vento e dei pesci impazziti di paura. È allora che gli uomini li arpionano: così vengono uccisi i tonni dopo i tragitti a cui li obbligano le reti.

Questo accade nella tonnara. La parola che definisce il momento dell’arpionatura incute paura ed è tanto potente da emigrare in altri contesti: mattanza. L’origine è spagnola: matar, uccidere.

L’acqua si tinge di rosso mentre i tonni vengono tirati a bordo a forza di braccia. Non in tutte le tonnare si effettua la mattanza ma è comunque una storia antica, e oramai quasi perduta, dell’intero bacino del Mediterraneo. Una storia di uomini e mari che si incontrano. «Un pesca ecologica e selettiva – spiegava Sebastião Salgado presentando il suo lavoro del 1993 La mano dell’uomo – Gettavano le reti e aspettavano che i tonni entrassero nella cosiddetta camera della morte dove poi erano tirati fuori e uccisi. Un giorno ricevetti la telefonata del Rais dei pescatori di Favignana: vieni, i tonni sono nella rete. Presi subito l’aereo: eccomi. Il giorno dopo eravamo in mare alle 5 del mattino».

Le prime attestazioni della pesca del tonno risalgono a migliaia di anni fa. Alla Grotta del genovese a Levanzo, la più piccola delle Egadi – nel cui braccio di mare di fronte a Favignana avveniva la mattanza – dipinti e graffiti di 12/13mila anni fa lo testimoniano. Ma attualmente, le tonnare superstiti sono rare, quelle funzionanti sono solo a Carloforte, in Sardegna. Altrimenti restano i musei: a Favignana, Scopello, Bonagia, Milazzo, Stintino.

OGGI L’UNIONE EUROPEA ha attribuito delle quote di pesca del tonno, a dividersele sono Spagna, Francia e Italia. Il Thunnuus thynnus, il tonno rosso, il più pregiato, vive nell’Atlantico: uno dei flussi migratori attraversa lo stretto di Gibilterra ed entra nelle acque calde del Mediterraneo per riprodursi ma incappava nelle reti. La tonnara è infatti un sistema composto da varie «stanze» in cui i tonni, animali gregari, una volta entrati non riescono più ad uscire e, attraverso un percorso obbligato, giungono fino all’ultima sosta, chiamata – appunto – «camera della morte». Le reti erano calate a mare a primavera e quando il Rais stimava ci fossero abbastanza pesci si procedeva alla mattanza. Nei racconti di chi ha vissuto di tonnara per anni, o per generazioni, la pesca aveva una ritualità, rimandava al mistero del mare e del creato, della vita e della morte: prima di salpare i tonnaroti pregavano e cantavano antiche suppliche.

I TONNI CHE ARRIVANO nel Mediterraneo ormai sono pochi ma a Favignana – la più raccontata delle tonnare italiane – nel 1845 furono pescati 14.020 tonni, un record, mentre negli anni ’60 la media era 3.500 a stagione. Nel 2007 non si è arrivati neanche a 100. Dal 2008 le reti non sono più state calate. Periodicamente si parla ancora di riaprire la tonnara ma le quote Ue e il grosso investimento necessario rendono il progetto di difficile realizzazione.

Intorno alla nascita delle tonnare sono fiorite leggende: un giovane pastore sardo vedeva i tonni nuotare ai piedi della montagna su cui pascolava le pecore e nel pensare come catturarli vide un ragno che tesseva la sua tela: fu così che l’idea prese forma.

UN’ALTRA – riportata da Aristotele in un libro di dubbia attribuzione, il De mirabilibus auscultationibus, Sugli ascolti meravigliosi – racconta che i Fenici navigando per quattro giorni al di là delle colonne d’Ercole giungessero in un luogo in cui il mare era pieno di alghe coperte dal flusso e poi scoperte nel riflusso dove si trovavano quantità di tonni di incredibile grandezza. È possibile che i Fenici, abilissimi navigatori, oltrepassassero lo Stretto di Gibilterra per arrivare fino al Mar dei Sargassi, un mare che era, e forse è ancora, area di pastura per i tonni e che oggi è inquinato da masse di plastica che entrano nella catena alimentare. Ma, leggende a parte, furono davvero i Fenici i primi, grazie alle torri di avvistamento, a calare quelle reti che ricordano le successive tonnare.

IN SICILIA LA TONNARA viene introdotta intorno al mille dagli Arabi e, nel volgere di alcuni decenni, se ne trovano a decine lungo tutte le coste dell’isola. In Sardegna giunge invece alla fine del XVI secolo: nel 1591 parte da Palermo per Cagliari un equipaggio composto da rais, tonnaroti e reti. La spedizione ha un tale successo che dà inizio alla storia delle tonnare sarde e il commerciante cagliaritano promotore dell’impresa venne premiato dalla corona spagnola che allora dominava l’isola. La tonnara informava di sé la vita delle comunità: a Carloforte ci si sposava a luglio e agosto quando, a pesca terminata, si aveva un po’ di denaro.
Se a Favignana come a Carloforte è il Rais che decide il momento di tirare su le reti, nelle tonnare di «monta e leva», come quella di Camogli, le reti formano un sacco che viene sollevato tre volte al giorno e il pescato caricato su una barca, detta «asina», senza «mattanza» di sangue.

Il dato odierno è che lungo le nostre coste i tonni sono sempre più rari: da un lato l’inquinamento delle acque e la pesca intensiva ma soprattutto la presenza di flotte che intercettano i tonni prima di Gibilterra, avvistando i grandi banchi con l’ausilio di elicotteri ed ecoscandagli. Un sistema meno cruento della mattanza ma non meno crudele.

Il periodo d’oro delle tonnare arriva nella seconda metà dell’Ottocento quando vennero costruiti nuovi stabilimenti per la lavorazione e la conservazione dove era massiccia la presenza delle donne che invece non partecipavano alla pesca. Furono anni importanti anche a Favignana dove la famiglia Florio, padroni della tonnara locale oltre che di quella di Formica e dell’intero arcipelago, colora di leggenda la vita dell’isola. Accanto alle innovazioni produttive, ospiti illustri giungono nel villino Florio: tra loro il duca d’Aosta e Eugenia de Montijo, moglie di Napoleone III.

Per secoli la conservazione del tonno è avvenuta per salagione e solo nel 1868 viene applicata l’invenzione che ne consente la conservazione in scatole di latta sterilizzate consentendo così la distribuzione che adesso, priva di riti e di magia, senza Rais, senza cialome, benedizioni e tradizioni invade gli scaffali dei nostri supermercati.

Un mondo cruento e a misura d’uomo che è sparito. Un lavoro faticoso e antico, ricco di storia e di dramma. Un luogo, disegnato dalle barche nere sul mare, dove l’uomo incontrava gli abissi.

 

Rais, l’unico sciamano a officiare il rito

«Il Rais gli parlava: “Buon giorno tonnara”, oppure “Buona pesca tonnara”, aveva infatti con la tonnara un rapporto quasi sacrale, era una figura di assoluta autorevolezza. È difficile oggi comprendere l’aura che lo circondava», spiega Maria Guccione, favignanese, già assessora alla cultura, al turismo e all’ambiente, esperta della storia di Favignana. «Era sua – prosegue – la responsabilità di scegliere dove calare la tonnara, lui a decidere il momento della mattanza». Il rais – selezionato dal proprietario di concerto con il rais precedente – era alla guida di un meccanismo complesso ma soprattutto «era più del capo, era una specie di sacerdote, di sciamano che officiava un rito – aggiunge Guccione – la sua autorevolezza era tale che spesso fungeva anche da giudice. Avevano visi impastati dal mare e dal vento, personaggi con aria sacrale che univano religiosità e superstizione perché in tonnara si pregava ma si facevano anche gli scongiuri».