Il viaggio dell’Afro-Napoli United è cominciato nel 2009: Antonio Gargiulo, commercialista esperto del terzo settore, giocava a calcetto con un gruppo di ragazzi senegalesi, la partita settimanale divenne l’opportunità per scoprire il microcosmo dei migranti partenopei provenienti dall’Africa centrosettentrionale, che affollano il centro storico di giorno per poi scomparire la sera, inghiottiti nel dedalo dei decumani o dei quartieri intorno alla Stazione centrale. I primi anni la panchina contava quindici ragazzi dall’altra sponda del Mediterraneo (Costa D’Avorio, Nigeria, Tanzania, Tunisia e Senegal), tredici partenopei.

La comunicazione viaggiava inciampando tra l’arabo, il francese e l’inglese, oggi si è instaurata un’unica lingua ufficiale comune a tutti: il napoletano.Il gruppo nel tempo è cambiato, è diventato più affiatato, ogni anno disputa il campionato Aics, un paio di volte ha alzato la coppa al cielo, quest’anno secondi avendo perso 1-0 in finale con l’High Tech Dental. Gargiulo è giustamente fiero del suo gioiello, un ventenne capoverdiano con una cresta da Apache biondo platino. Una volta Antonio giocava da centrocampista in Afro-Napoli, adesso ha appeso le scarpette al chiodo e si dedica alla panchina, all’organizzazione e al reclutamento talenti.[do action=”citazione”]«In campo siamo zemaniani, il modulo è il 4-3-3, andiamo all’attacco, il capocannoniere del torneo è il nostro Dodò, ragazzo da 40 gol a stagione, più di Cavani, e infatti io non lo vendo neppure per 63milioni di euro».[/do]

La squadra non è un passatempo finito il lavoro ma un progetto, un progetto che ogni anno va a sbattere contro le leggi e la burocrazia sportiva, un mix studiato per tenere i migranti nell’unico posto dove l’apparato statale li vuole, nel cono d’ombra lontano dalla socialità per italiani col pedigree in ordine.«Non possiamo disputare i campionati Figc – spiega – perché ai ragazzi non solo è richiesto il permesso di soggiorno ma un permesso di lunga durata, poi ci vuole un certificato di residenza storica con la permanenza nello stesso indirizzo per almeno 12 mesi. Il tutto non viene smaltito nelle agenzie locali, come per gli italiani, ma va mandato alla sede centrale di Roma, che ti risponde quando ti risponde. Nel frattempo sei fermo in attesa». Naturalmente sarebbe tutto da ridere se non fosse una cosa molto seria. La legge Bossi-Fini, con il reato di clandestinità, ha reso quasi impossibile la regolarizzazione, con tempi biblici, figuriamoci uno di lunga durata.

Neppure quelli che hanno avuto accesso alla sanatoria ma in attesa di risposta sono tesserabili, però da un anno pagano i contributi per pensioni di cui probabilmente usufruiranno solo gli italiani. In quando poi alla residenza bisognerebbe chiedere ai proprietari che fittano a nero se le regole Figc li toccano fino a convertirli alla legalità.
Così Afro-Napoli non può confrontarsi con altri campionati, una ragazzina di Padova figlia di migranti non ha potuto fare le gare di nuoto, addirittura degli under 10 di Milano è stato inibito il torneo di calcetto. A Roma la squadra di migranti Liberi Nantes ha deciso di disputare il campionato Figc ma senza accesso alla classifica, giocano ma come se non ci fossero. Al campionato Aics, che è un’associazione di promozione sportiva, si accede con un semplice documento di riconoscimento ma anche così non è facile. Può capitare, ad esempio, che arrivi la Digos per consultare la documentazione, come se una squadra di calcio fosse un’associazione a delinquere. Quest’anno il team partenopeo ha disputato le finali nazionali, tra le partecipanti una squadra di Torino tutta di migranti: «Con loro abbiamo perso ma non importa. Girando scopri un movimento che cresce, insieme dobbiamo combattere questa battaglia per l’accesso libero allo sport, cominciando i minorenni».

I giocatori di Afro-Napoli si sono presentati alla finale Aics con la maglietta «Ius soli» perché su un campo di calcio non necessariamente si fa solo sport. Sugli spalti a seguirli ci sono i Black panters: i supporters ogni settimana portano uno striscione e dal pallone ci si può spostare anche a rivendicare il diritto a ribellarsi alla Bce, soprattutto se i ragazzi e le ragazze frequentano il centro sociale Insurgencia, se qualcuno di loro si occupa del fondo rustico sottratto alla camorra Amato Lamberti-Selva Lacandona di Chiaiano. «In squadra c’è Omar, un rifugiato scappato dalla guerra in Libia, per lui il primo anno è stato difficilissimo, adesso finalmente si sente uno di noi, ogni tanto va a Chiaiano a dare una mano». A sostenere i ragazzi c’è anche la rete del gruppo di imprese sociali Gesco, magari qualcuno riesce a trovare lavoro nel terzo settore, ma la maggior parte è confinata nelle cucine dei ristoranti o fanno i badanti o vendono merce in giro per il centro, «questi sono i lavori che vengono a rubarci» prosegue Gargiulo, lavori al nero che erano già pagati male prima e che adesso fruttano ancora meno.

In campo tutto questo non conta. In panchina una quarantina di atleti, cinque napoletani cercano di guadagnarsi la convocazione in prima squadra, per allenarsi c’è il campo a San Giovanni a Teduccio dove il proprietario, che è un compagno, fa un prezzo stracciato. Nelle strutture pubbliche non è possibile: gli allenamenti sono la sera, dopo il lavoro, quando hanno già chiuso. Il sogno è farsi dare in gestione dal comune uno dei tanti campetti abbandonati. Giuseppe De Rosa è il capitano, Francesco Fasano e Omar Ndiaye i dirigenti, i fuoriclasse della squadra, oltre Dodò, sono il senegalese Habib e il capoverdiano Aldair Soarez, poi ci sono gli italo-brasiliani Alessandro e Lello, età media 20 anni, ma l’attività di scouting non si ferma mai. «Ci trovano loro attraverso il passaparola, ormai in zona Ferrovia siamo famosi, la regola è allenamento a porte aperte».