Chiunque abbia intrapreso una vita da scrittore, sa che molto è dipeso, dipende e dipenderà dalla sua tenuta mentale. Riuscire a tenere a bada le ossessioni, i fantasmi, ma soprattutto i fallimenti, non deragliare e perdere contatto con quel fuoco, terribile e meraviglioso, quel territorio selvaggio che è la letteratura.
Ne sapeva qualcosa il grandioso William Faulkner, alcolista viscerale, grande bevitore di Mint Julep a base di bourbon, che definiva lo scrivere uno «splendido fallimento nel fare l’impossibile», un lavoro titanico e anche tantalico, profondamente psichico e solitario, e per questo il più asociale e individualista di tutti.
La solitudine, l’ansia, la paura di vivere la vita vera, molto più noiosa e ripetitiva rispetto a quella avventurosa della fiction, ma anche la tendenza all’autodistruzione e al suicidio, il cattivo rapporto con i genitori, una società spietatamente competitiva e classista, sono alcuni elementi che spingono da generazioni gli scrittori americani all’alcolismo.

DAI PIONIERI Edgard Allan Poe, Mark Twain e Jack London, che dedicò alle sue memorie alcoliche un libro, John Barleycorn, fino agli ultimi e più giovani Raymond Carver, Sam Shepard, Premio Pulitzer arrestato più volte per guida in stato d’ubriachezza, e il geniale Forster Wallace.
In mezzo, cinque premi Nobel su otto, autori monumentali del calibro di William Faulkner, Ernest Hemingway, Eugene O’Neill, Sinclair Lewis e John Steinbeck.
Ora in Viaggio a Echo Spring (Il Saggiatore, pp. 320, euro 24), nella traduzione di Francesca Mastruzzo e Alessio Pugliese, Olivia Laing – scrittrice, collaboratrice del Guardian e autrice di Città sola, un libro no fiction sulla solitudine sotterranea nella moltitudine effervescente di New York – prova a inseguirne alcune di queste vite, cercando di capire quale sia (se esiste) il rapporto tra alcol e scrittura, tra scrivere e bere, e come questa dipendenza abbia influito sullo stile e sulla forma letteraria, prima ancora che in queste esistenze cupe e disperate.

Lo fa partendo dalla propria storia famigliare, quella di due genitori etilisti e libertari, intrecciando con sapienza memoria della sua vita, frammenti di biografie, e un lungo reportage di viaggio che da New York e New Orleans, la porta verso St Paul sulle tracce di John Berryman, fino a Port Angeles, dove Carver visse la sua ultima stagione felice. E parte da un libro, La gatta sul tetto che scotta da cui proviene il titolo: «Fisicamente, Echo Spring non è altro che il nomignolo dato all’armadietto dei liquori e deriva dalla marca di bourbon lì custodito», spiega in un passo.

L’AUTRICE, al racconto in presa diretta lega opere letterarie, memorialistica, cronaca culturale, epistolari, istantanee memorabili, come quella che ritrae Hemingway con il padre dell’8 agosto 1927, o il giovane Carver, con la canna da pesca impugnata con la mano sinistra e nell’altra una carpa, grassoccio e dallo sguardo triste. Non manca uno sguardo critico su alcuni libri, da Il nuotatore, Il Crollo, Festa mobile, i Canti onirici e molti altri, che l’autrice viviseziona, citandone fonti rivelatorie, fondamentali per capire la parabola artistica ed esistenziale degli autori.
In Tre giocatori per un gioco estivo, per esempio, Tennessee Williams fa dire a Brick, uno dei personaggi, la frase fulminante: «Un uomo che beve, è due persone, una che afferra la bottiglia e l’altra che lotta per impedirglielo, non una ma due persone che lottano fra di loro per prendere il sopravvento della bottiglia».
Olivia Laing cerca di avvicinarsi a queste vite, calarsi nelle segrete, esplorare quello strano e complesso territorio misterioso dove indole, educazione, creatività, genius loci e destino trovano nell’alcol il loro disperato detonatore vitalistico.

[object Object]

IL BERE NON DIVENTA in molti di questi grandi scrittori solo elemento corporale, che genera disturbo, insonnia (che è anche il titolo di un famoso racconto sul bere di Hemingway, uno dei 49) e malessere esistenziale, la cosiddetta «circuiteria del sonno», ansia, depressione, oppure trama biografica, capace di minare vite molto spesso in bilico, facendole deragliare irreparabilmente; ma entra prepotente anche nell’atto creativo, come l’afasia, che nelle ultime pièce di Tennessee Williams – uno dei sei scrittori raccontati nel libro, insieme a Hemingway, Fitzgerald, Cheever, Berryman, il poeta che beveva Martini dry, e Carver – diventa cifra stilistica nelle frasi smozzicate dei dialoghi tronchi. Il drammaturgo, leggendo il suo ultimo copione, ne è persino spaventato, quella che una volta per lui era «la sostanza di cui sono fatti i sogni» si era trasformata in un terribile veleno: «Un cambiamento strutturale nel mio cervello? Un’incapacità di pensare in modo chiaro e logico? O solo troppo alcol?».

ANCHE FITZGERALD, che scrisse Tenera è la notte da ubriaco, è cosciente di questa osmosi alcolica: «Quando bevo, le mie emozioni si intensificano, e io le riverso nel racconto. Poi però diventa difficile equilibrare ragione ed emozione». John Cheever, tra gli scrittori che Olivia Laing analizza più in profondità, è forse quello nel quale più di altri l’alcol produce una sintesi tra logorio esistenziale e arte del raccontare, e sembra più scientifico e spietato nell’autoanalisi, parlando della sua scrittura nei diari Una specie di solitudine: «Mi ha portato soldi e fama, ma ho il sospetto che possa avere qualcosa a che fare con il mio vizio del bere. L’eccitazione dell’alcol e l’eccitazione della fantasia sono molto simili». In Recovery, il suo romanzo incompiuto, il poeta John Berryman racconta nella forma della confessione anche i sui deliri alcolici: «Gravi perdite di memoria, ricordi distorti. Delirium tremens una volta ad Abbott, andato avanti per ore. Un litro di whiskey al giorno per mesi a Dublino mentre lavoravo sodo su una lunga poesia».
L’alcol fu «un imprescindibile lubrificante dello scambio sociale» per moltissimi scrittori americani, da John Steinbeck a Raymond Chandler, Ring Lardner, Carson McCullers, fino a Norman Mailer e Gregory Corso, un veleno che tormentava la vita onirica e quella da svegli, li rendeva irascibili, sgradevoli al massimo o perdutamente appassionati e impulsivi dentro una drammatica vitalità.

POTEVA ESSERE qualcosa di molto sofisticato e sottilmente insidioso come i long drink a base di vodka e succo d’arancia che scolava lo smanioso Truman Capote, alcolista indomito fino agli eccessi, il Gin Rickey che Fitzgerald beveva e fece bere a molti dei suoi personaggi, i Mojito e Daiquiri che Hemingway sorseggiava in gran quantità nei bar di L’Avana, il Wiskey Sour preferito da Dorothy Parker, o la tequila, passione un po’ selvaggia di un ubriacone cronico, Jack Kerouac, leggenda della generazione beat, morto a 47 anni di cirrosi epatica, ma anche il rozzo Boliermaker, una miscela di birra e whiskey, il cocktail preferito di uno, Charles Bukowski, che quando doveva bere non andava molto per il sottile.
Il viaggio dell’autrice, iniziato a New York, finisce a Port Angeles, nell’altro lato degli States, dove Raymond Carver, l’autore di Cattedrale, l’ultimo grande autore di short stories della tradizione americana, visse gli ultimi dieci anni della sua vita da sobrio.

Chi ha letto la monumentale biografia di Carol Sklenicka Una vita da scrittore conosce nei minimi dettagli tutti i retroscena di un bevitore sgradevole e distruttivo soprannominato «Cane fuggente», i continui litigi con la prima moglie Maryann Burk, che stride con la prosa esistenzialistica e cechoviana dei suoi racconti, l’uomo che disse di se stesso e di quel periodo: «Tutto ciò che ho toccato si è trasformato in una terra desolata».
Chi ha letto quel libro e conosce tutta la sua produzione di narratore, conosce la sua vita difficile, la fuga dalla famiglia e dalla routine, dai due figli avuti giovanissimo, i tanti mestieri fatti per sbarcare il lunario come il fattorino di farmacia o l’operaio, l’infelicità di dover scrivere dentro un’auto parcheggiata in garage, come quando stese di getto Meccanica popolare, storia di un bambino fisicamente conteso da due coniugi sull’orlo della separazione nel corso di un litigio furibondo.
Carver nel maggio del 1977 riuscì a smettere di bere. Intervistato anni dopo dalla Paris Review affermò: «Posso dire di essere un ex alcolista. Sarò sempre un alcolista, ma ora non sono più un alcolista praticante».