In giornate piene di nulla a casa, capita di riaprire scatole, cassetti, album e cose del genere che di norma trascuriamo. Gli oggetti che vi troviamo appaiono delle autentiche scoperte. Oggetti di poco conto, conservati per valore affettivo, che fanno riemergere dal baratro dove lasciamo cadere i ricordi qualche frammento del passato. Talvolta si tratta di frammenti che nonostante giacciano proprio nel fondo di quel baratro, per quanto sono remoti, tornano a evocare persone, luoghi, avvenimenti. Che ci coinvolgevano un tempo, ci legavano, mentre oggi tuttalpiù ci strappano un riso indulgente. Una borsa di similpelle nera chiusa da una fibbia, usata per trasportare libri e quaderni, custodiva un testo, uno solo, ma bastevole a scioccare ancora leggendone l’argomento sulla copertina: equazioni differenziali di primo e secondo ordine. Visto come un tormento dell’età scolastica, quel testo, l’avevamo relegato definitivamente in quella borsa mezza scucita, poi finita nel baratro più recondito del nostro vissuto.

Ma, sorpresa, sventolandolo dal dorso per far respirare le pagine intaccate dall’umido, era scivolata sul pavimento una busta contenente un foglio: il tradizionale foglietto e busta, che serviva per scrivere una lettera. E quella era proprio una lettera, con indirizzo, mittente e affrancatura timbrata, ricevuta quando i ciuffi dei capelli ci cadevano ribelli sulla fronte. Un’ultima lettera, con la quale veniva scritta la fine di una storia. Senza neppure rileggerla, in un lampo ne abbiamo realizzato il contenuto. C’erano parole che amareggiavano e per soggetti tesi ancora ai richiami delle distrazioni piuttosto che a quelli dei sensi di colpa, nonostante il grosso della vita se ne sia andato, abbiamo evitato che tornassero a parlarci. A suo tempo l’avevamo confinata fra le pagine del testo delle equazioni differenziali, certi che mai l’avremmo più riaperto. Ciò che non sarebbe accaduto in una situazione di normalità, però, ecco che avveniva da reclusi in casa per l’imprevisto, quantunque diffuso, allarme pandemico.

Dentro quella storia sepolta ci siamo rivisti per alcuni istanti poco meno che ventenni, quando incontratici la prima volta non suscitammo alcuna attrazione reciproca. Tornammo sulle nostre strade, vivendo in città diverse e lontane. Qualche anno dopo, ritrovandoci, e benché i capelli cadessero ancora sulla fronte, ci ricredemmo finalmente. Cominciò quel periodo in chiaroscuro incendiato da un desiderio, mai riprovato, capace di far salire le linee della febbre. Come un virus impetuoso. Cinque mesi appena, così intensi così frettolosi, per sempre giovani non essendoci più rivisti, ridotti a scampoli confusi ormai, eppure incancellabili.