Giunto a Princeton in esilio, Albert Einstein continuò a coltivare una passione che aveva maturato in Germania: quella per la vela, che praticava di preferenza in modo solitario. Così, negli anni trenta, passò diverse estati nella parte orientale di Long Island. Raccontano le memorie locali che il suo affetto per l’acqua non era sorretto da un’adeguata perizia: non imparò mai a nuotare e non si preoccupava molto dei venti; piuttosto, usava la sua barca come un luogo di meditazione e di isolamento, esponendosi a situazioni di pericolo, accompagnate dall’ansia dei suoi amici e parenti. Ma una delle vacanze a Long Island, nell’estate del 1939, fu memorabile per ben altri motivi: le foto, i documenti, le cronache del tempo attestano una congiuntura del tutto particolare, sotto il profilo del suo sguardo sul mondo, del suo ruolo, della sua immagine, della vita in famiglia.

Nel marzo del 1939 Einstein aveva compiuto sessant’anni. In una lettera inviata all’amico Maurice Solovine qualche mese prima, aveva scritto: «Riesco ancora a pensare, ma la mia capacità di lavorare si sta rammollendo. E allora: morire non è la cosa peggiore, dopo tutto». Scomparsa da due anni la seconda moglie Else, Einstein viveva insieme a tre donne: la sorella Maja, la figliastra Margot e la segretaria Helene Dukas. Agli occhi dei colleghi emersi nell’ultimo decennio, gli interessi scientifici di Einstein sembravano datati, fuori moda, quasi finiti in un binario morto. Dopo gli immensi contributi dati alla fisica tra il 1905 e il 1915, aveva orientato tutte le sue energie nella ricerca di una teoria unitaria dei campi e della materia, che doveva impegnarlo per oltre trent’anni, in una continua alternanza di tentativi, entusiasmi, errori, sconfitte e nuovi inizi. Non raggiunse mai l’obiettivo e, soprattutto, la sua personale diffidenza per la meccanica quantistica sembrò ai fisici delle nuove generazioni qualcosa di incomprensibile in una delle menti che avevano dato i natali alla fisica contemporanea.
In mare aperto, di notte

Anche nei mesi estivi, così come in inverno a Princeton, la vita quotidiana di Einstein era alquanto monotona. Spesso, restava parecchie ore in barca, da solo, munito soltanto di un taccuino, per registrare le sue idee. Talvolta, fu necessario andare a ripescarlo in mare aperto, a notte fonda. Si esercitava con grande impegno al violino, generando qualche perplessità nei vicini. Nel luglio del 1939 si presentò in un magazzino di Long Island, alla ricerca di un paio di sandali. A quei tempi, quel genere di calzature non doveva essere comune per gli uomini, se è vero che David Rothman (il proprietario) fu solo in grado di offrirgli la misura più alta di un modello da donna. Ma Einstein ne restò assolutamente soddisfatto, tanto da farsi immortalare più volte con quei sandali: insieme a Rothman, ma anche in circostanze più eleganti, quando si esibiva in concerto, con il suo violino. In una lettera dell’epoca, scrisse a un suo amico che quelle foto erano la conferma di una diceria e di un sospetto, che lo riguardavano intimamente: il fatto che non usasse calzini, da quando – in età giovanile – aveva scoperto che sono soggetti a bucarsi in corrispondenza degli alluci.

Il 16 luglio del 1939, nel villaggio in cui Einstein passava la vacanza arrivarono due forestieri: erano Eugene Wigner e Léo Szilárd, già studenti di Einstein, che avevano seguito i suoi corsi a Berlino negli anni venti. Diventati anche loro due autorità scientifiche, Wigner e Szilárd erano partiti di prima mattina in auto da Manhattan, per incontrare il loro antico maestro; ma non avevano alcuna intenzione di discutere di fisica teorica. Piuttosto, già da qualche anno Szilárd era angosciato dalla possibilità che l’emissione di neutroni da parte di alcuni materiali radioattivi fosse in grado di innescare altre emissioni, producendo una reazione a catena e liberando grandissime energie. Dagli esperimenti condotti quella stessa primavera alla Columbia University – insieme a Enrico Fermi e Herbert Anderson – Szilárd aveva avuto la conferma che era davvero possibile innescare processi del genere; e che, per questo, era diventato urgente scongiurare l’eventualità che la Germania nazista arrivasse per prima a ottenere quelle reazioni, venendo a disporre di armi nucleari.
Scopo dichiarato della visita era dunque utilizzare tutto il peso e la fama di Einstein al fine di convincere il presidente degli Stati Uniti a avviare al più presto un programma straordinario di ricerca, dedicato alla realizzazione di un’arma nucleare. Già quella domenica (e in un successivo incontro, due settimane dopo), Einstein dettò e firmò di suo pugno un appello a Roosevelt che – qualche mese dopo – fu all’origine del progetto Manhattan, dal quale nacque effettivamente la bomba.

L’ossessione di Hoover
Dopo la guerra, Szilárd e Einstein si impegnarono a fondo in campagne di controllo e disarmo nucleare. Di più: Einstein cercò di presentare il suo appello del 1939 in maniera sfumata, come se a lui fosse toccato soltanto appoggiare – in un momento drammatico – una sollecitazione non sua. In verità, il mancato coinvolgimento di Einstein – in forma diretta – nella fase esecutiva del progetto Manhattan fu legato in gran parte alle ossessioni di J. Edgar Hoover, direttore del Fbi, che vedeva in lui un pericoloso sovversivo, di simpatie comuniste. L’impegno morale di Einstein per l’avvio del progetto fu invece convinto, e si prolungò fino al giugno dell’anno successivo. Tracce del suo compiacimento per gli sviluppi concreti del progetto sono documentate almeno fino al dicembre del 1943 ; e, in particolare, per il coinvolgimento di colleghi del suo stesso calibro, come Niels Bohr.

Quando la sconfitta della Germania cominciò a delinearsi in modo chiaro, la preoccupazione di Einstein cambiò: divenne quella di costruire un governo condiviso dell’intero pianeta, che scongiurasse l’uso delle armi atomiche, o il dominio imposto con il terrore. Una prospettiva utopica, segnata da rimpianti. Infatti, cinque mesi prima di morire, ammetteva: «ho fatto un grande errore nella mia vita, quando ho firmato la lettera al presidente Roosevelt, raccomandandogli la costruzione della bomba atomica». E, poche settimane dopo, vicino ormai alla morte: «se l’avessimo capito prima, né io né Szilárd ci saremmo adoperati per scoperchiare il vaso di Pandora».