«In aula il 4 ottobre e poi approvazione della legge elettorale entro dicembre». È questo il calendario sprint deliberato dal Pd per fare uscire la politica italiana dalla «palude» in cui è «precipitata» dopo il voto del 4 dicembre.

Ciò che viene però omesso è che la responsabilità dello stallo in cui si trova il Paese non è del popolo italiano, reo di avere arginato la deriva costituzionale innescata dall’allora capo del governo: è stato l’esecutivo Renzi a procedere alla stesura della legge elettorale per un solo ramo del parlamento (la camera dei deputati), dando per scontato il superamento del bicameralismo perfetto.

AD AVERCI LASCIATO in eredità due diverse leggi elettorali, alquanto disomogenee per camera e senato, è stato quindi l’avventurismo costituzionale di questi anni. Non certo il popolo.

Così come è stato il Pd, nei mesi successivi, ad aver impedito uno spedito e aperto confronto sulla legge elettorale in Parlamento. La preparazione delle primarie, i consunti rituali di incoronazione del nuovo capo (che è poi quello vecchio), la decisione di far naufragare il modello tedesco «riveduto» (assumendo quale pretesto l’approvazione di un «marginale» emendamento del M5S) hanno sottratto mesi preziosi alla stesura della nuova legge elettorale.

IL CONFRONTO SULLA legge elettorale recentemente ripartito non lascia però ben sperare. Il Rosatellum 2.0, imperniato su un mix di collegi uninominali (36%) e proporzionale (64%), obbliga di fatto le formazioni politiche a coalizzarsi, riabilita le liste bloccate, introduce il voto unico (diversamente da quanto previsto finanche dalla legge maggioritaria del 1993 che prevedeva, oltre allo scorporo, due diverse schede per la quota maggioritaria e per quella proporzionale).

Il crescente bisogno di rappresentanza politica presente nel Paese è stato, ancora una volta, raggirato. A tenere banco sono stati, anche in questa circostanza, gli interessi, i calcoli contingenti e le convenienze delle singole forze politiche. I talk show televisivi di questi giorni hanno già fatto sapere che Berlusconi, grazie alle disposizioni di questa nuova legge, è convinto di tornare a vincere. La Lega di fare il pieno di seggi uninominali al nord. Alfano di superare agevolmente la soglia del 3%. Il Pd di continuare ad occupare il centro della scena politica.

MOLTO MENO entusiasti parrebbero invece il M5S allergico alle coalizioni e le formazioni a sinistra del Pd più che mai indecise a tutto: è più conveniente puntare separatamente al 3%, ambire rischiosamente insieme al 10% o rassegnarsi a una alleanza con il Pd?

Ma il quadro politico è quanto mai fluido e nessun partito dispone oggi della palla di vetro per sapere cosa accadrà al momento del voto. Una condizione ottimale che dovrebbe indurre il parlamento a redigere, al riparo del «velo di ignoranza» (come direbbe Rawls), una buona legge elettorale.

Ecco perché il «facite ammuina» di questi giorni non può essere la soluzione. Il parlamento ha davanti a sé un compito quanto mai delicato che richiede, a ciascuna forza politica, un surplus di responsabilità e di senso dello Stato.

LA LEGGE ELETTORALE non è una legge come le altre. Misurarsi con la sua stesura significa riflettere sulle articolazioni della società, sulle dinamiche dei poteri, sulla complessità dei rapporti tra rappresentanza e voto, sulle trasformazioni sociali e politiche della nostra storia. A cominciare da quanto è avvenuto nell’ultimo anno: dal referendum del 4 dicembre che ha respinto ogni ipotesi di decurtazione della rappresentanza alla decisione della Corte (sent. n. 35/2017) che dichiarando incostituzionale buona parte della legge elettorale renziana ha arrecato un durissimo colpo alla retorica della democrazia di investitura. E, in particolare, all’idea, a essa sottesa, che la partecipazione democratica si risolva (sempre e comunque) nella scelta del Capo e nella possibilità di conoscere il nome del Presidente del Consiglio «il giorno stesso delle elezioni».

IN QUESTO QUADRO, ostinarsi a inseguire avventure maggioritarie è insensato e inutile: il bipolarismo coatto è morto, il voto utile arranca, il quadro politico è oggi composto da tre se non, addirittura, quattro schieramenti.

Vi è pertanto solo una strada da seguire: varare una legge elettorale proporzionale in grado di assicurare la più ampia e coerente rappresentazione degli interessi e degli orientamenti politici presenti nel paese.

In caso contrario il Parlamento sarà destinato drammaticamente a divenire – ancor più di come lo è oggi – un luogo distante e separato dai bisogni dei cittadini, un puro ornamento del sistema, sempre meno sensibile alle istanze sociali e sempre più permeabile ai desiderata dei poteri economici, delle oligarchie finanziarie e dell’antipolitica.