La sua carriera come Jedi è simbolicamente aperta da una citazione della Spada nella roccia: nel finale del Risveglio della forza (2015), durante il duello con il malvagio Kylo Ren (Adam Driver), Rey (Daisy Ridley) raccoglie la spada laser che fu di Luke Skywalker, intorno alla quale si concentrano tutti i sogni degli appassionati della saga. In quanto «erede» del cavaliere Jedi della saga originaria, Rey e la sua interprete occupano un posto di primo piano nell’immaginario pop degli anni dieci del ventunesimo secolo, in cui si è anche cercato di costruire un «pantheon» eroico al femminile, di superare l’impostazione esclusivamente maschile nei grandi blockbuster (e non solo) – da Hunger Games a Captain Marvel.

Cresciuta su un pianeta sperduto e desertico come Luke Skywalker, Rey ne raccoglie anche la «vocazione» nella forza – il motore invisibile della galassia creata da Lucas. Rey è l’erede di Luke (benché non di sangue) nel primo capitolo della trilogia dove ne ricalca le gesta nel corso del remake/sequel ideato da Abrams. Allo stesso modo Daisy Ridley raccoglie l’eredità di Mark Hamill: da perfetta sconosciuta, cameriera in un bar di Londra, a star, volto noto in tutto il mondo – un cambiamento repentino che lei stessa ha definito «spaventoso».

Con l’arrivo di Rian Johnson a girare il secondo capitolo – Gli ultimi Jedi (2017) – della trilogia che si è conclusa proprio con la fine del decennio, a venire messa in discussione non è solo la centralità maschile, ma l’idea fiabesca di un mondo di eroi dal sangue blu, dove la vocazione a salvare il mondo arriva per via ereditaria e il colpo di scena consiste nella scoperta che il povero è in realtà il principe venuto a reclamare il suo regno. Non solo nel titolo più politically correct conferito all’altra eroina della saga: Leia (Carrie Fisher), che da principessa diventa, già nel Risveglio della forza, generale, ma suggerendo l’idea che Rey potesse essere la capofila di una nuova generazione di eroi venuti dal nulla. «Non sei nessuno» le rivela Kylo Ren dopo tanto interrogarsi sull’identità dei genitori che l’avevano abbandonata da bambina.

Nella galassia di sfruttatori e reietti immaginata da Johnson (e che si ritrova anche nello spin off su Han Solo di Ron Howard) l’eroina «nuova» è il volto di un mondo di diseredati. Una trovata a suo modo «rivoluzionaria» in una macchina strutturata come quella di Star Wars e più vicina all’idea di Lucas che aveva concepito il prequel della sua trilogia – uscito fra il 1999 e il 2005 – anche come una grande metafora politica dell’America a cavallo tra i due secoli e in cui un’altra donna (Padme, interpretata da Natalie Portman) si batteva perché la Repubblica non venisse trasformata in Impero.

Nella conclusione della trilogia/sequel però la nuova eroina, Rey, viene riassimilata al mondo delle fiabe: quanto più Abrams incentra il film sul suo percorso quanto più questo procede «a ritroso», con tanto di bacio salvifico che dalla Spada nella roccia ci porta alla Bella addormentata nel bosco, una traiettoria tortuosa nell’immaginario che all’alba del nuovo decennio ha ancora molti ostacoli da abbattere.