In un intervento del 1975 Viktor Šklovskij, uno dei fondatori della scuola formalista russa (quest’anno ne ricorre il centenario legato alla celebre lezione sulla lingua dei futuristi, che proprio Šklovskij tenne nel dicembre del 1913 al cabaret Il cane randagio di Pietroburgo), scriveva in polemica con le più recenti tendenze dello strutturalismo e della semiotica: «io sono più uno scrittore che un teorico della letteratura… un Don Chisciotte che salvaguarda le armature dei cavalieri…»

E in effetti, Šklovskij, membro dell’ Opojaz (Associazione per lo studio del linguaggio poetico), teorico dello straniamento, autore del celebre studio L’arte come procedimento, e fine studioso dell’opera di Tolstoj, Sterne, Majakovskij, nonché autore del fondamentale studio Una teoria della prosa, si cimentò fin da subito direttamente nella creazione letteraria. Pubblicò versi (ad esempio, la raccolta Destino di piombo, del 1914) che, a dire il vero, furono oggetto degli ironici strali di Sergej Esenin, ma poi ben presto si affermò come prosatore e negli anni venti e trenta fu autore assai prolifico, specie nell’ambito del genere biografico.
Il fenomeno certo non fu isolato: anche Jurij Tynjanov fu autore di prosa storico-biografica di alto valore letterario, il giovane Boris Ejchenbaum fu poeta di sapore simbolista, e lo stesso Roman Jakobson si dilettò di poesia sperimentale e transmentale sotto lo pseudonimo di Aljagrov.

Il lettore italiano conosce già di Šklovskij scrittore Zoo, o lettere non d’amore (due edizioni, 1966 e 2002) e ha ora l’opportunità di accostarsi a un’opera del tutto particolare, sia per genere che per caratteristiche formali: Iprite, ora proposta dalla casa editrice Meridiano Zero (traduzione e cura di Giulietta Greppi, pp. 352, euro 18,00). Si tratta di un’opera sperimentale del 1925 nel genere del romanzo d’avventure (il noto critico Igor’ Smirnov l’ha definita «risposta sovietica al Pinkerton») scritto a quattro mani con un’altra importante figura della letteratura sovietica degli anni venti, Vsevolod Ivanov, membro del gruppo dei «Fratelli di Serapione» e autore del celebre romanzo dedicato alla guerra civile Treno blindato 14-69 che il lettore italiano conosce in una vecchia traduzione pubblicata dagli Editori Riuniti.

Ripubblicata in nove fascicoletti nel 1929 per i tipi del Gosizdat e presentata come «romanzo d’avventure», Iprite è una iniziativa editoriale nell’ambito della letteratura d’evasione di massa, ma è allo stesso tempo fortemente segnata da un taglio propagandistico. Per i due autori si tratta di una sorta di sfida e di gioco volto a evidenziare le proprie capacità di inventiva e di improvvisazione. Si è parlato per questo libro di una gara di velocità, di skoropis’ (scrittura veloce), una sorta di creazione tachigrafica nella quale è difficile distinguere le due diverse personalità autoriali e che si realizza in un crescendo di trovate e funambolismi caratterizzati dal continuo utilizzo del procedimento del deus ex machina.

Non a caso Iprite vuole essere un tentativo di trasposizione in letteratura delle forme di composizione e montaggio cinematografico (qualche anno fa il lettore italiano ha avuto l’opportunità di conoscere gli importanti contributi sul cinema di Šklovskij in una nuova e ricca silloge, Sul cinema. Saggi, recensioni, essais, a cura di Damiano Rebecchini, Temi Editrice, 2009) con evidenti riproposizioni verbali delle gag del cinema muto e delle prime strisce di fumetti. Allo stesso tempo l’opera si inserisce nel filone della narrativa fantastica e di divulgazione scientifica, ricollegandosi a numerosi esempi della prosa sovietica del tempo. Ma di cosa si parla nel vorticoso alternarsi di ambientazioni, avventure e registri stilistici?

Il nucleo della narrazione è attualissimo per l’epoca (gli anni dell’affermazione del nuovo sistema sovietico e l’ostilità del mondo circostante), e il titolo ci rimanda agli orrori della Grande Guerra: l’iprite è un gas tossico, chiamato anche gas mostarda, impiegato nei dintorni di Ypres in Belgio. Proprio questo gas diventa simbolo della nuova grande guerra tra l’imperialismo e la giovane Russia dei Soviet. Il romanzo si dipana così in una molteplicità di ambientazioni (da Londra a Mosca e a New York, dalla Novaja Zemlja, fino a Ipatevsk, città immaginaria, centro di ricerca sovietico per i nuovi armamenti) e in un turbinare di episodi, nei quali è messo a nudo il progetto delle potenze imperialiste di schiacciare il nuovo potere proletario utilizzando le più recenti scoperte della chimica nell’ambito delle armi per lo sterminio di massa.

Dato il carattere di sfida nell’invenzione e nella velocità di realizzazione, il romanzo si presenta come un curioso e paradossale insieme di trovate, tra il gioco e la parodia. I personaggi stessi sembrano usciti dalle gag del cinema dell’epoca, dall’eroe positivo, il proletario Paška Slovochotov (il «Cacciatore di parole») che con l’orso ubriacone Rokambol, viene accolto a Londra come un novello Tarzan, al perfido chimico Mond con la bella figlia Susanna e il maggiordomo Holten, il «negro che non dorme» (per aumentare i profitti gli industriali utilizzano il gas «susanite» che priva gli operai occidentali dell’esigenza di dormire accrescendone la produttività… come non pensare al Chaplin di Tempi moderni!). Si prospetta così anche la creazione di una nuova religione e di un nuovo dio, Reck, che serva alla causa dell’assoggettazione dell’Urss da parte dell’imperialismo mondiale (una scientology ante litteram).

Certo, dietro il tono spesso ironico e l’impianto parodistico non è difficile riconoscere quel pathos utopico e quella sconfinata fiducia nel progresso che caratterizza la visione del mondo dell’uomo sovietico nei turbinosi anni dell’edificazione socialista. Dietro il fantasmagorico universo costruito da Šklovskij e Ivanov, tra atmosfere stranianti ed effetti retrò (come non notare scherzosi toni nostalgici nei confronti delle «piccole cose del mondo che fu»), oltre la degradazione della volgarità quotidiana e le banalità della cultura di massa, allignano i grandi temi dell’utopismo sovietico. Tra leggerezza e imprevisto, con continui sbalzi e sovvertimenti, tratteggiata a mo’ di pointillisme, nello specifico stile «acrobatico» di Šklovskij e nel colorismo di Ivanov, la trama si avvolge e si distende veloce tra paradosso e contraddizione. In alcuni momenti pare realizzarsi quella piena omogeneità stilistica che ci ricorda i successi del sodalizio letterario tra Il’f e Petrov.
Anche il piano ideologico è percorso da pulsioni ironiche non sempre politicamente corrette, come nel passo dedicato alle migliaia di negri che attendono dal nuovo dio la pelle bianca, un vino che non faccia ubriacare, un lavoro senza sudore e l’Africa senza europei.

Certamente il piano estetico scelto dai due autori, con tutti i limiti intrinsechi a un’opera dichiaratamente di intrattenimento, è quello dello sperimentalismo modernista, del montaggio imprevisto che in una certa prospettiva sembra anticipare molti dei procedimenti del postmoderno e della decostruzione. Si giunge persino a informare il lettore della morte degli autori: «Conformemente alla volontà degli scrittori Vsevolod Ivanov e Viktor Šklovskij, morti nell’attacco di Mosca…». La notizia è riportata in un foglietto che Paška strappa via a un cinese. Il testo sopravvive ai suoi autori ed è come se continuasse a prodursi autonomamente.
In definitiva Iprite è qualcosa di più di una semplice testimonianza d’epoca. Non è certo un capolavoro letterario, ma tra burla e invenzione è comunque un’opera che si legge con il piacere ingenuo e spensierato riservato ai passatempi. E proprio questo, del resto, il lettore di un’opera simile si aspetta.