Sempre molto attenta alle tendenze più attuali del mercato editoriale, Orthotes manda in libreria un piccolo classico del pensiero comunista, Il giovane Marx di György Lukács (a cura di Piergiorgio Bianchi, pp. 101, euro 14). Come in precedenza fatto col volume di Mladen Dolar, La voce del padrone, la casa editrice cerca di inserire questo Giovane Marx in una corrente d’interesse preesistente e consolidata. Se nel primo caso metteva Dolar nella scia del lungo successo di Slavoy Zizek (essendo, al pari di questi, tra i fondatori della Scuola Psicoanalitica di Lubiana, in possesso, quindi, dello stesso stile argomentativo), nel secondo, con Lukács, cerca di sfruttare il rinnovato interesse del pubblico italiano per il giovane Marx. Un interesse che avuto un momento importante nella pubblicazione nel 2010 di Pro e contro Marx (Erickson) del sociologo Edgar Morin e che riterremo definitivamente fondato quando si tradurrà il Marx 1845. Les «Thèses» sur Feuerbach (2008) di un grande filosofo amico della sociologia, Pierre Macherey.

Un testo d’altri tempi

Non è la prima volta che il testo di Lukács esce in Italia. Come ci ricorda il curatore di questa nuova edizione, Il giovane Marx, dopo essere stato pubblicato in rivista («Deutsche Zietschrift für Philosophie») nel lontano 1954, e poi un altro paio di volte in volume (1965 e 1967), è stato tradotto per Editori Riuniti nel 1978 da Angelo Bolaffi. Il destino editoriale del testo, con tanto di ricezione italiana, coincide con quella che fu la vita della prima società industriale: dal boom economico del secondo dopoguerra fino ai prodomi della crisi del fordismo. In breve, è un libro che appartiene a un’altra era della nostra civilità, a quando l’organizzazione sociale si poteva spiegare nei termini della fabbrica, dei partiti e dello Stato. E a quando, nel marxismo post-stalinista europeo, ci si azzuffava sul rapporto Hegel-Marx, sulla necessità di individuarne la rottura e sul ruolo in essa giocato per l’appunto dalla produzione teorica giovanile del filosofo di Treviri. Per intenderci, questo Giovane Marx ha l’età di Galvano Della Volpe e di Louis Althusser.

Naturalmente, se non lo avesse scritto Lukács e se fosse ancora all’ordine del giorno del marxismo contemporaneo il tema della «rottura epistemica» tra Marx e Hegel, questo libretto segnerebbe un’epoca. L’autore, con perizia filologica impareggiabile e grande sicurezza interpretativa, passa in rassegna tutti i lavori del giovane Marx dal 1841 al 1844: dalla dissertazione di laurea (Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro) agli scritti giornalistici sulla «Gazzetta renana»; dai contributi agli Annali franco-tedeschi (La questione ebraica e Per la critica della filosofia del diritto di Hegel) ai Manoscritti economico-filosofici. In ognuno di essi viene indicato con precisione chirurgica il punto esatto della rottura, così che alla fine della lettura davvero crediamo che sin da subito tra il giovane Marx e il vecchio Hegel «l’opposizione» sia «insanabile».

Purtroppo, però, a essere l’autore di questa ricostruzione è proprio Lukács e, per nostra fortuna, il marxismo contemporaneo ha ben altri problemi da risolvere che non questo della discontinuità tra i due grandi, assillato com’è da globalizzazione, migrazioni, conflitti di genere, trasformazione del lavoro e controffensiva neoliberista. È giusto dire perché sia la stessa firma di Lukács a gettare un’ombra di dubbio sull’operazione tentata ne Il giovane Marx. Solo poche parole: in un testo formativo come Storia e coscienza di classe lo stesso autore aveva annullato ogni differenza tra Hegel e Marx per consentire al marxismo di acquisire la categoria della totalità, o meglio, del processo produttivo totale. Questo netto passaggio dalla fusione completa (Marx in Hegel) all’espulsione (Marx fuori da Hegel) spinge a credere che la valutazione di tale rapporto dipenda non tanto da una rigorosa e sentita necessità scientifica, ma da opportunismo politico: come nel primo caso Lukács abiurò la tesi su comando dall’Internazionale Comunista, nel secondo tenne ben presente il giudizio negativo di Stalin su Hegel.

Eppure Il giovane Marx va salvato ben oltre ciò che lo condanna. Contro la sua storia e contro Lukács, questo libro consente non tanto un accesso generico a Marx quanto un accesso attuale alla sua opera giovanile. Un’attualità che può essere garantita grazie al confronto con i problemi posti dagli apparati di comunicazione. Uno fra tutti: il rapporto tra informazione e censura. Da questa prospettiva, l’esperienza giornalistica di Marx alla guida della «Gazzetta renana» diventa strategica. Dice Lukács: «L’attività di Marx quale redattore fu caratterizzata dalla lotta ininterrotta contro la censura prussiana. Egli mise in luce in tal senso una straordinaria abilità e una grande inventiva nello scoprire le forme che consentissero di dire di fronte alla censura le cose più radicali in un modo che non dovesse portare all’immediata proibizione del giornale, per arrivare così, mediante una propaganda paziente e tenace, alla raccolta di tutte le forze progressiste».

Un modello per la comunicazione

Dal Marx giornalista, allora, possiamo ricavare un modello generale di lavoro astratto nei media orientato eticamente (dire la verità), informato da precise strategie retoriche (dire la verità in modo da raggirare la censura) e animato da un progetto politico (dire la verità evitando la censura così da comporre un’analisi reale del mondo sociale che possa fungere da collante per tutte le forze innovatrici della Germania che si vogliano opporre all’ultra reazionario Impero prussiano di Federico Guglielmo IV).
Se non lo si fa più dipendere dall’abituale sistema culturale di riferimento (evoluzione interna del pensiero di Lukács e storia del marxismo occidentale) e si inizia a metterlo in relazione col sistema produttivo dei media, ebbene, questo Giovane Marx può ancora sorprenderci.