«Tutta la mia vita è legata a Leningrado. A Leningrado sono diventata una poetessa. Leningrado ha dato ali alla mia poesia. E io, al pari di tutti voi in questo momento, vivo nell’incrollabile fede che Leningrado non sarà mai fascista». Sono le parole della poetessa russa Anna Achmatova, nell’agosto del 1941. Dal 22 giugno le armate tedesche marciano verso Leningrado. Da lì a poco, a settembre, circonderanno la città per dare vita al suo assedio, che durerà tre anni (fino al gennaio 1944). Le parole di Achmatova, pronunciate durante un suo intervento in radio, costituiranno uno dei tanti momenti critici nella storia della città, presa d’assalto dai nazisti. La poetessa rimarrà a Leningrado finché le sarà possibile (fino a che lei e altri intellettuali non verranno spostati in luoghi più sicuri) consegnando alla storia un esempio di coraggio e perseveranza. Non fu l’unica ad agire in quel modo, ma tanti furono i codardi, i vigliacchi e chi si profuse in piccolezze umane.
Nel libro di Harrison E. Salisbury, I 900 giorni. L’epopea dell’assedio a Leningrado (Il Saggiatore, pp. 743, euro 23) le vicende cui fu sottoposta durante la seconda guerra mondiale la città fondata da Pietro il Grande, diventano una splendida incursione storica, condotta con uno stile giornalistico asciutto, che punta al sodo, senza troppi barocchismi. Un mix perfetto per una vicenda che non ha bisogno di iperboli: è già incredibile nel suo sviluppo storico. Venticinque anni di lavoro, indagini, raccolta di testimonianze, lettura di rapporti strategici, militari, avvicendamenti, trame e cronache sotterfugi politici. Ci voleva la morte di Stalin per aprire tanti diari realizzati a caldo, durante i giorni convulsi della città assediata dai nazisti e per restituire alla storia la straordinaria resistenza di Leningrado e dei suoi abitanti.

Giornalismo narrativo di classe

Salisbury (corrispondente a Mosca per il Time nel secondo dopoguerra) scrive in modo preciso e puntuale, sprigiona con acume le complessità storiche, nelle quali incastra le vite di uomini e donne altrimenti dimenticate. Storie minori, che si alimentano e alimentano quella in scena nella segrete stanze, tanto di Mosca, quanto di Leningrado e che confluiranno infine nella «Grande Storia». Affida la cronologia degli eventi agli scontri interni al Partito comunista, alle decisioni militari, sottolineandone errori e importanza, alternandolo alla vita di una città che per alcune settimane rimase in uno stato quasi apatico, come non fosse accaduto nulla (le notti bianche, le Prospettive sempre piene di persone) fino a risvegliarsi con i tedeschi in casa.
La storia di Leningrado, la sua resistenza contro il nazismo, non ha bisogno di epica, ma di un giornalismo narrativo, capace di cadenzare il ritmo di una feroce resistenza, quasi sovrumana. E Salisbury ne fornisce il sangue e i muscoli. Nonostante l’impasse iniziale dell’esercito sovietico, le incertezze di Stalin e la quasi certa morte, scomparsa, annientamento totale della città, se non fosse stato per i suoi abitanti. A essere celebrata è «Peter», la ex capitale voluta dal più occidentale degli zar, Pietro. «Leningrado non era soltanto l’obiettivo dell’offensiva tedesca; era anche una grande città industriale che dava un contributo fondamentale allo sforzo bellico dell’Unione sovietica». All’epoca dell’assedio tedesco, aveva 520 stabilimenti e 780mila operai. Produceva il 91 per cento delle idroturbine sovietiche, l’82 per cento dei generatori di turbine, il 100 per cento delle caldaie a corrente diretta. Una «produttività» che non si fermerà del tutto: nell’agosto del 1941 le fabbriche di liquore della città produrranno oltre un milione di bombe molotov. Ma il vero scopo di Hitler era colpire Leningrado, per arrivare a estirpare il cuore dell’Unione Sovietica. L’intento tedesco era colpire e conquistare Leningrado, in quanto «culla del bolscevismo» e per mezzo della quale Hitler pensava di unirsi alla Finlandia, per governare il Baltico, le regioni ucraine (importanti per le materie prime), i centri industriali di Donetsk e i pozzi petroliferi del Caucaso.
Ci sono alcuni aspetti sottolineati nel volume, che aiutano a comprendere la grandezza della resistenza del popolo di Leningrado. Innanzitutto la città stessa, la sua aria parigina, occidentale, contrapposta a Mosca, l’«orientale».

Le due anime russe

In secondo luogo tutta la girandola di controversie militari, che portarono per un attimo a considerare perduta la città. Salisbury sottolinea il panico iniziale di Stalin di fronte all’inaspettato attacco tedesco; del resto l’intelligence sovietica aveva messo in evidenza le volontà belliche di Hitler, nonostante il patto Molotov Ribbentropp. Stalin, alla notizia dell’attacco, sparirà per un paio di settimane, non prima di aver esclamato, come riportano i diari di ufficiali vicini al leader del Pcus, «tutto quanto ha fatto Lenin, è andato perduto». Per capire le pieghe storiche, spesso rappresentante in modo schematico, Salisbury offre una lettura in cui protagonista è l’anima della città, refrattaria al controllo, fedele ai suoi due grandi «fondatori», Pietro e Lenin, così diversi eppure così grandiosamente considerati simbolo della città. Una delle chiavi di lettura proposta di Salisbury è leggere la difesa di Leningrado, come l’ennesimo capitolo della sfida tutta russa, tra «Peter» e Mosca. Da 200 anni «era in corso una lotta per l’anima della Russia, per la supremazia nel paese». Da un lato i moscoviti, «sciatti, avidi, rudi, vigorosi, guidati dal clero ortodosso e della cupida classe mercantile moscovita, le dure famiglie dalla mano pesante, grandi consumatori di vodka, che erano ascese dal contadiname a spese dei loro simili, conservatori, contrarie ad ogni mutamento, isolazioniste». Dall’altra parte, Leningrado: lo sguardo puntato sullo splendore di Parigi e di Roma, pur con il cuore sul Volga. «Lo stile ispirato all’Occidente, ecumenica, industriale, sensibile agli influssi stranieri, che guardava dall’alto in basso l’arretrata, fangosa e polverosa Mosca». Gli abitanti di Leningrado raccontano di un sentimento di possessività, di orgoglio, anche della Rivoluzione. Per certi versi, per gli abitanti Leningrado finiva per diventare sinonimo della Rivoluzione bolscevica, tanto da far dire anni dopo ad Achmatova, «No, non ho mai vissuto sotto cieli stranieri, al riparo da ali straniere: allora sono rimasta con la mia gente, là dove la mia gente, infelice, era».
C’è poi tutto l’aspetto militare, logistico, fatto di guerra, strategie, panzer, errori clamorosi e conseguenze di altre errate valutazioni. Abbiamo detto dello stupore, raccontato da Salisbury, delle alte gerarchie militari sovietiche alla notizia dei primi attacchi russi. «Non rispondere in alcun modo», era il mantra delle prime ore di quelle notti di giugno. Confusione e con essa la paura di prendere decisioni, poi smentite dal centro, da Mosca. Ipotesi che spaventava e atterriva anche i più valorosi militari di Leningrado (non pochi dopo le prime settimane di guerra, finiranno in Siberia). C’erano poi alcune tare del passato, che pesarono enormemente nelle prime fasi del conflitto.
Innanzitutto le difese della città. Poiché per tanti anni Leningrado era vissuta come una frontiera posta solo a una trentina di chilometri più a nord; poiché per tanto tempo era apparso evidente che un eventuale nemico a nord sarebbe stato in grado di sopraffare quasi subito la città, quasi tutte le precauzione difensive di Leningrado erano state concentrate a nord. Ma i tedeschi attaccarono in modo più avvolgente, contribuendo al panico tra i generali sovietici. Già nella notte del 22 giugno e prima che Stalin prendesse anche in esame l’ipotesi di abbandonare completamente Leningrado, per concentrarsi solo su Mosca, pesarono alcuni errori dovuti anche alla scarsa capacità degli addetti militari. Le cause di questi cortocircuiti, secondo Salisbury, non sono semplicissime, anche perché una volta consegnata la dichiarazione di guerra da parte della Germania «ciò che accadde al Cremlino, è ancora oggi difficile da stabilire». Di sicuro ci fu la Direttiva numero 1 del Commissario della difesa, firmata dal maresciallo Timosenko e dal generale Zukov. L’ordine non definiva, incredibilmente, Russia e Germania come nemiche. Veniva ordinato di attaccare i tedeschi sul territorio russo, ma veniva vietato di passare in territorio tedesco. Inoltre è da ricordare che i livelli apicali dell’esercito avevano subito gravi epurazioni negli anni precedenti: centinaia di membri influenti del Partito furono cacciati o uccisi dal 1937 al 1938.

Battaglie di strada

E Leningrado fece così affidamento, più che mai, su se stessa. Ad un certo punto il terrore era tale, che «nessuno sapeva se Leningrado si poteva salvare o se si sarebbe salvata». Prima del lancio dell’operazione Iskra, che ribalterà le sorti della guerra di Leningrado e salverà la città, furono i cittadini a resistere, attraverso una lotta «strada per strada». Per le strade della città fecero la loro comparsa «ragazzi armati di secchi di vernice, che cominciarono a coprire le indicazioni stradali e cancellare i numeri civici. La città si preparava a combattere per le strade». Affamata, stanca, sempre più spoglia: persone morte di freddo e mancanza di cibo, tra cui letterati, soldati, persone comuni. Secondo le parole, misurate, dello storico ufficiale di Leningrado, «Nella storia del mondo non vi sono esempi che nella loro tragicità eguaglino gli orrori di Leningrado affamata. Ogni giorno vissuto nella città assediata equivaleva a molti mesi di vita normale. Era terribile vedere come di ora in ora svanissero le forze delle persone vicine e care. Sotto gli occhi delle madri morivano i figli e le figlie, i bambini restavano senza genitori, una moltitudine di famiglie fu spazzata via». È così, specifica Salisbury, Leningrado «una città da tre milioni di abitanti, una città di vigliacchi e di patrioti, di imbroglioni da quattro soldi e di uomini e donne animati da infinita dedizione, di militari confusionari e di capi di Partito in lizza tra loro, si avviava ai giorni della prova». Fino alla vittoria, alla salvezza.