La conclusione del dibattito sulla mozione di sfiducia intentata nei confronti della ministra Boschi non avrebbe potuto avere altro esito data la forza dei numeri. Tanto più che Forza Italia si è sfilata dal voto. Resta però da chiedersi se era il caso di esporre l’opposizione a una sconfitta annunciata. La mozione di sfiducia individuale è uno strumento da maneggiare con molta cura. Richiede la capacità di argomentare le accuse in modo talmente efficace e circostanziato da potere fare breccia nello schieramento avversario.

E, onestamente, non è ciò che è andato in scena a Montecitorio. Ben diverso sarebbe stato il quadro se si fosse giunti ad una mozione di sfiducia, o individuale o nei confronti dell’intero governo, al termine di un lavoro di una commissione di inchiesta parlamentare, come previsto dall’articolo 82 della nostra Costituzione, capace di procedere «alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria».

L’argomento è tornato d’attualità sia perché i truffati dai malfamati bond stanno dando assedio agli sportelli della banca di Arezzo, sia perché ne ha fatto cenno lo stesso presidente del consiglio. Ma il governo non deve avere voce in capitolo su uno strumento tipicamente parlamentare, previsto proprio per potenziare al massimo livello la funzione conoscitiva e ispettiva delle Camere. Nello stesso tempo non si può permettere che la questione si chiuda affidando al solito Raffaele Cantone, presidente dell’Anac – il Mr. Wolf di Renzi – l’arbitrato sui bond emessi dalle quattro banche salvate dal provvedimento governativo. Quanto è successo chiama in causa il funzionamento dell’intero sistema bancario italiano; il suo grado di solidità e di sicurezza; i nessi che questo ha con la nuova legislazione e il sistema di governance finanziaria europea in materia; il nodo della vigilanza: da chi e come viene esercitata; la tutela del risparmio e dei risparmiatori, cui ci richiama lo stesso dettato Costituzionale. Ovvero una grande questione di politica economica.

Non a caso Fabrizio Cicchitto si schiera con decisione contro l’istituzione di una simile commissione. Per l’occasione la presunta invadenza della magistratura viene strumentalmente rovesciata in quella del Parlamento ai danni di quest’ultima: «Lasciamo lavorare i magistrati in santa pace». Non c’è dubbio che le attribuzioni conferite a una commissione di inchiesta parlamentare costituiscano una deroga al principio della divisione dei poteri. Ma solo parziale, poiché ovviamente la commissione non avrebbe alcun potere di giudizio né sanzionatorio propri di un giudice, ma poteri inquisitori tali da incidere anche sulle situazioni giuridiche soggettive.

Con finalità diverse, tese non ad acclarare le responsabilità penali dei singoli ma le distorsioni del sistema preso in esame o di parti di esso. Conseguentemente una commissione potrebbe avere un indirizzo più “politico”, se finalizzato ad esempio a supportare di dati una mozione di sfiducia o più “legislativo” se teso a suggerire l’adozione di nuove normative. Fermo restando che i due piani non sono rigidamente distinguibili. Dipende dalla legge istitutiva.

Naturalmente la composizione della commissione, che dovrebbe essere bicamerale, rispetta la proporzionalità della rappresentanza dei gruppi. Una modifica all’articolo 82 della Costituzione che potenziasse il ruolo delle opposizioni in questo campo sarebbe utile e logica, ma non tira aria. Tuttavia, come già successe ai tempi di quella su Cirio e Parmalat, una buona opposizione avrebbe strumenti più affilati contro il governo e l’attuale governance bancaria.