Seminascosta tra i capannoni, in un angolo di cemento e lamiere tra il Grande raccordo anulare e la via Prenestina, c’è la Grande Pagoda cinese. Se non fosse per l’inconfondibile tetto a falde spioventi dalle volute arricciate, la si potrebbe scambiare per uno dei tanti magazzini all’ingrosso della zona, quasi tutti di proprietà cinese: è questo, infatti, il polmone del commercio made in China nella capitale. Molti imprenditori cinesi hanno iniziato a fare affari qui e, a colpi di offerte d’acquisto vantaggiose e concorrenza a prezzi bassi, in breve sono riusciti ad espandersi, tanto che oggi un terzo dei 250 proprietari delle aziende del consorzio parla cinese. È qui che la comunità buddhista cinese di Roma ha scelto di costruire il suo tempio, il secondo in Italia dopo quello di Prato. È stato inaugurato il 31 marzo con una cerimonia pubblica, ma era già un luogo di culto attivo aperto a diversi praticanti.

L’apertura della Grande Pagoda non è l’unica novità. Il primo febbraio è stata una data storica: è entrata in vigore la prima intesa ufficiale tra lo Stato italiano e l’Unione buddhista italiana (Ubi). Attraverso questo accordo, simbolicamente importante perché rivolto ad una confessione non appartenente alla tradizione giudaico-cristiana, viene riconosciuta la libertà di religione per i buddhisti e legittimata la presenza di ministri di culto, luoghi di preghiera e festività. «È un passo importante per l’integrazione dei buddhisti in Italia, va nella direzione indicata dall’articolo 8 della Costituzione che sancisce la libertà di culto – spiega Maria Angela Falà, vice presidente dell’Ubi. È lei ad accompagnarmi all’interno del tempio. Ad accogliere il visitatore due leoni scolpiti dall’aspetto terrificante. «Sono i dharmapala, i guardiani del tempio che hanno il compito di difendere il Dharma, cioè la dottrina – spiega la mia guida -. Prima che il tempio fosse inaugurato i due leoni erano bendati. Ora hanno aperto gli occhi e sono entrati in servizio». Chen, un ragazzo che incontro nel cortile, spiega in un italiano dal suono mandarino che «per cinque anni tutti mette soldi e tanti permessi per costruire ci vuole!».

Il tempio è stato tirato su grazie alle donazioni della comunità immigrata cinese di Roma e con fondi provenienti da alcuni monasteri cinesi. All’interno ogni oggetto ha un significato e rispecchia la tradizione del Buddhismo Mahayana Chán, il più diffuso in Cina.

Ogni domenica si svolge la preghiera collettiva: una lunga cerimonia di recitazione di canti di preghiera scanditi dal suono grave dei tamburi e dal tintinnio argentino delle campanelle. A officiare il rito è una delle quattro monache taiwanesi che abitano nel tempio: è lei che dà il via ai mantra dal ritmo sempre più veloce che i fedeli seguono salmodiando a voce alta con un tono quasi ipnotico. Tutti indossano una lunga tunica nera in segno di sobrietà e di uniformità, ad eccezione della monaca. «Lei indossa il kesa, un mantello color zafferano che anticamente era composto di pezzi di stoffa rimediati qua e là grazie alle offerte dei fedeli e cuciti insieme – precisa Falà -. I monaci osservano il voto di povertà e, nella tradizione, era consentito loro possedere solo una ciotola per il cibo e le elemosine».

Momento culminante della preghiera, che oltre ai canti prevede ben 88 genuflessioni, è l’offerta di incenso al Buddha Sakyamuni, la cui statua dorata si erge al centro dell’altare. Intorno, in tante piccole teche rotonde, ci sono delle statuine: «Sono le guanyin, l’aspetto femminile del bodhisattva della compassione. Spesso sono raffigurate anche con un bambino in braccio – spiega ancora Falà – tanto che i primi missionari cristiani in Cina, come Matteo Ricci, le hanno associate alla figura della Madonna con il bambino». Il culto delle guanyin è molto popolare in Cina. «Tutte familia mette una», spiega Chen. La guanyin è una divinità protettrice del nucleo familiare: le famiglie che hanno dato qualcosa per la costruzione del tempio hanno il diritto e l’onore di potervi custodire la propria statuina votiva.

Luoghi sacri da tutelare

Con la ratifica dell’intesa templi come questo vengono riconosciuti luoghi di culto a tutti gli effetti: luoghi sacri da tutelare con il divieto di requisizione, occupazione, esproprio e demolizione e in cui le forze di polizia non possono entrare, se non in casi estremi.

«Ci è voluto un lungo iter burocratico, durato quasi quindici anni, prima di arrivare alla ratifica», prosegue la vice presidente dell’Ubi. I lavori iniziarono nel 2000 quando venne fissato un primo accordo con il governo D’Alema ma, fino al 2012 non si è mai arrivati all’approvazione finale in Parlamento. Una situazione cosi a lungo in stallo che nel 2008 l’Ubi, assieme ad altre comunità religiose minori, fondò la Coalizione per le Intese Religiose allo scopo di sollevare la questione del mancato completamento dei processi di ratifica. «Perché il problema non è tanto il riconoscimento del Buddhismo o di un’altra confessione, ma il fatto che in Italia manca una legge vera e propria sulla libertà di religione e, per le religioni diverse da quella cristiana, ancora si fa riferimento alle leggi fasciste sui culti ammessi», spiega Falà. La discussione sulla legge dell’intesa riprese nel 2011 con il governo Berlusconi registrando un consenso generale fra le varie forze politiche, ad eccezione della Lega Nord che presentò una raffica di emendamenti per sottoporre a controllo parlamentare l’attività degli enti buddhisti. E tutto si bloccò di nuovo.

Il punto di svolta è arrivato nel 2012, grazie al sostegno dei senatori Stefano Ceccanti e Lucio Malan. Su loro iniziativa, l’intesa è approdata in Commissione affari costituzionali, prima quella del senato e poi quella della Camera. «Da questo punto di vista, l’ultima legislatura è stata molto più produttiva rispetto al passato: le intese ratificate sono passate da sei a undici, coinvolgendo quasi tutte le principali confessioni – spiega Ceccanti -. Il fatto di aver votato la legge in Commissione e non in aula, ha sicuramente facilitato l’approvazione: un luogo meno scenografico che però ha consentito una discussione più serena, al riparo da opposizioni dettate dalla teatralità e – prosegue – siamo anche riusciti a far passare l’intesa come materia pattizia, quindi non emendabile. La Lega ha dovuto ritirare i suoi emendamenti per inammissibilità e il testo è stato approvato all’unanimità». È una vittoria parziale, però: «Dedicarsi a una legge quadro sulla libertà di religione in Italia –conclude Ceccanti- dovrebbe essere un impegno per il prossimo governo e credo che qualche risultato si potrà ottenere se, invece di partire da una definizione astratta di laicità o di libertà religiosa, nozioni non condivise nel dibattito pubblico, si estendono le garanzie delle intese a una legge di portata nazionale».

Ma cosa comporta questo riconoscimento? «Equivale a un trattato internazionale – riprende Maria Angela Falà – e sancisce la piena attribuzione di diritti agli appartenenti all’Ubi», come ad esempio il diritto all’assistenza spirituale da parte di ministri di culto buddhisti, anche quando il fedele sia un militare in servizio, una persona ricoverata in ospedale o detenuta in carcere. «È chiaro che per arrivare al compromesso si è dovuto aprire tutto un processo di confronto interno alle realtà che compongono l’Unione buddhista per definire cos’è il culto o chi è e cosa fa un ministro di culto. Sono categorie che storicamente non ci appartengono, – spiega – ma la cui definizione si è resa necessaria per il dialogo giuridico con le istituzioni».

Altro aspetto fondamentale è la possibilità di inserire l’insegnamento della religione buddhista nelle scuole: se alunni e genitori lo richiederanno, l’Ubi potrà incaricare dei propri docenti. Via libera anche all’istituzione di scuole, università e centri culturali parificati agli istituti statali. E poi il diritto a scegliere la cerimonia di sepoltura secondo il rito funebre buddhista e la predisposizione di aree riservate nei cimiteri. Anche le feste religiose verranno riconosciute, al pari della domenica, della Pasqua o del Natale: chi lo vorrà, senza dover prendere giorni di ferie, potrà osservare la più importante festa buddhista, il Vesak, che celebra l’illuminazione del Buddha e ricorre ogni anno a fine maggio.

Rapporti economici e fiscali

Il vero punto caldo dell’intesa riguarda, però, la regolazione dei rapporti economici e fiscali. Innanzitutto, poiché l’Ubi si finanzia principalmente con i contributi dei fedeli ed è considerato equivalente ad un ente di beneficenza, lo Stato darà la possibilità di dedurre tutte le donazioni in suo favore fino a un massimo di 1032,91 euro. Si aprono le porte anche alla ripartizione dell’8 per mille dell’Irpef, 900 milioni di euro complessivi che ogni anno vengono spartiti tra le varie confessioni riconosciute. «Includere anche l’UBI tra gli enti che possono beneficiare dell’8 per mille – argomenta Ceccanti – non fa altro che aumentare le possibilità di scelta per i cittadini. Dare l’8 per mille non significa automaticamente dichiarare la propria appartenenza religiosa, ma valutare ogni anno a chi dare un contributo sulla base di quello che ogni organizzazione religiosa ha fatto e promette di fare». E prosegue: «Andiamo verso una liberalizzazione del mercato religioso. Con l’8 per mille sono i contribuenti a decidere: aumenta il controllo su come vengono spese queste risorse e le istituzioni religiose sono spinte ad essere più efficienti e competitive nell’utilizzo di questi fondi». La vice presidente Falà assicura: «Le somme che riceveremo verranno utilizzate solo per interventi culturali, assistenziali e umanitari o per il sostegno al culto. Certo il lato economico è importante, ma non è questo che ci muove, anche perché ne abbiamo sempre fatto a meno. E comunque i primi frutti dell’8 per mille li vedremo, se va bene, fra un paio d’anni visto che l’intesa economica entrerà in vigore dall’anno fiscale 2014 e ci vorrà un altro anno per lo stanziamento dei fondi».

In Italia, però, non tutti i buddhisti sono rappresentati dall’Ubi: secondo gli ultimi dati del Cesnur, dei 230 mila praticanti presenti, solo 80 mila fanno parte dell’Unione. A loro vanno aggiunti i 60 mila praticanti della Soka Gakkai – la scuola di origine giapponese che, da sola, conta il maggior numero di fedeli – e i 90 mila buddhisti immigrati. «Nelle intenzioni del fondatore dell’Ubi, Vincenzo Piga – spiega la vice presidente – già c’era la volontà di creare un ente unico, in grado di porsi come referente nei confronti dello Stato. L’Unione non rappresenta alcun gruppo particolare, ma si propone di sostenere l’insieme del movimento italiano. Attualmente sono i 44 centri che aderiscono – prosegue – di tradizione theravada, zen e vajrayana: il denominatore comune è innanzitutto il rispetto reciproco di ogni tradizione, nella convinzione che nessuna scuola debba prevalere sulle altre».

La Soka Gakkai è l’altro polo del buddhismo italiano. Classificata dai sociologi tra i nuovi movimenti religiosi, è un’organizzazione laica diffusasi in Italia negli anni Settanta, sulla scia dei movimenti hippie. In passato è stata più volte accusata di essere una vera e propria setta, poi nel 2000 è stata riconosciuta come ente religioso e oggi anche i suoi membri attendono la ratifica di un’intesa ad hoc con lo Stato.