Una gran folla di donne di tutte le età ha riempito ieri la Casa Internazionale delle Donne di Roma, per dire che “La Casa è di tutte”. Anche alcuni uomini per la verità, consapevoli delle ricchezza culturale e politica che la Casa mette in circolo. Una folla che non entrava nella pur grande sala intitolata a Carla Lonzi, la critica d’arte che ha elaborato una via originale al femminismo.

Una folla che si è riversata al pianterreno per seguire dal video, che è arrivata fino in strada, in via della Lungara, dove è collocato l’antico edificio del Buon Pastore di cui la Casa occupa una parte, insolitamente intasata di auto in disperata ricerca di un parcheggio.

È un gran bel posto, la Casa Internazionale delle donne. Ora che il Comune di Roma chiede gli arretrati degli affitti non pagati, circa 800.000 euro, e lo fa con parole inequivocabili, si intende «procedere al recupero del credito», se necessario anche attraverso «il recupero del bene», questa bellezza sembra una colpa. La peggiore, in questi tempi rancorosi e sospettosi. Perché quelle donne, quelle signore devono avere a disposizione quel bel palazzo, senza pagare nulla?

Allora serve avere qualche informazione, e capire perché tutta Italia, a partire dalla presidente della Camera Laura Boldrini, si è mobilitata, per sostenere che quella deve continuare a essere là Casa delle donne.

Tutto comincia con il movimento, con un’occupazione. Era il 1983. L’idea era che nella città degli uomini, con istituzioni tutte maschili, ci voleva un posto dove le donne fossero a casa. Il Buon pastore era un edificio abbandonato, era stato un istituto dedicato alle fanciulle in difficoltà, da recuperare. Nel 1985 una delibera del Comune, il sindaco era Vetere, stabilì che l’edificio sarebbe stato destinato alle attività delle donne. Nel 1999 ci fu la convenzione con il Comune, sindaco Rutelli, e il palazzo venne restaurato dal Comune con i fondi del Giubileo.

Successivamente, con la giunta Veltroni, nel 2003, fece un accordo sul debito. che è composto di varie parti. Quello dovuto degli anni delle occupazioni, è stato pagato in buona parte. La quota relativa agli anni dal 1995 al 2003, è coperta circa per la metà.

C’è poi l’affitto, anno per anno. 87.000 euro all’anno. E’ facile fare i conti. Quest’anno fino a ottobre sono stati versati comunque 25.000 euro. A fine anno saranno 30.000.

Mancano all’appello i 50.000 euro che la presidente Francesca Koch e il direttivo della casa, insieme a tutte le associazioni che nella Casa hanno sede, fanno fatica a mettere insieme.

E questo è il punto delicato della trattativa con il Comune, oggi ci sarà un incontro con l’assessore al patrimonio Rosalia Alba Castiglione. Occorre far valere il valore sociale e culturale della casa. Far valere il valore del lavoro volontario su cui la Casa si regge.

Sono trentamila le donne che ogni anno frequentano la casa, sono centinaia donne che ci lavorano. In forma gratuita, spesso, a prezzi bassissimi, come accade per i quattro mesi estivi, spettacoli e incontri di alta qualità per i quali si chiedono tre euro di sottoscrizione.

Del resto da una ricerca del Comune sono stati valutati 700.000 euro all’anno, i servizi che la Casa offre alle donne della città. Ma il segreto è che la Casa è internazionale. Un centro di incontro, fulcro di una rete di relazioni accumulate negli anni.

È davvero un privilegio mantenere per decenni un luogo ai livelli di cura che l’edificio innegabilmente offre? Non ci sono arricchimenti, in chi si occupa e lavora per la Casa. Anzi. Il motore è la generosità, il mettersi a disposizione. Caratteristiche rare, nel mondo contemporaneo. Per questo preziose e da difendere. Per questo in tante di mobilitano, si emozionano. La cosa non si tocca. Si spera che la prima sindaca che Roma abbia mai avuto comprenda la storia speciale. E non tolga alle donne la loro Casa.