Il 9 maggio è, dal 1978, una ricorrenza nefasta per la democrazia del nostro Paese: è il giorno in cui Peppino Impastato fu fatto saltare in aria da una carica di tritolo per mano della mafia, da anni presa di mira dall’attività controcorrente del giovane militante di Democrazia Proletaria. I resti di Peppino furono sparsi dall’esplosione nel raggio di 300 metri; l’unico riconoscibile fu una gamba, brandelli di intestino pencolavano dai cavi dell’alta tensione; le traversine del binario su cui fu martoriato il corpo furono divelte. La ricerca dei resti fu estremamente complicata. Furono chiamati a raccolta gli amici perché coadiuvassero la ricerca ; i testimoni narrano che i resti poterono essere contenuti in due buste di plastica, quelle solitamente usate per la spesa al supermercato.

Gli uomini della mafia lo uccisero in un casolare isolato nella campagna di Cinisi prima di farlo saltare in aria; fino a poco tempo fa erano ancora visibili tracce del suo sangue che imbrattavano l’abbeveratoio per bovini al pascolo, oggi andato distrutto per mano di vandali idioti come la ragione inesistente che li spinse all’oltraggio. More solito, di primo acchito i CC e gli inquirenti lo declassarono come suicidio per via, anche, di una lettera in cui scriveva del suo sconforto per le difficoltà dell’impresa.

Peppino proveniva da una famiglia mafiosa e la sua lotta al padre Luigi, allo zio e a Cesare Manzella, cognato del padre, ne fanno un eroe moderno, un titano nella lotta alla criminalità organizzata e al malaffare. Il padre presto lo caccerà di casa per le sue attività ‘sovversive’.

Entrato in Lotta Continua, è a capo delle lotte dei contadini che erano stati espropriati delle loro terre per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo. Il suo capolavoro fu Radio Aut, fondata un anno prima della morte ed autofinanziata, dalla quale denunciava crimini e intrallazzi della piovra segnatamente nella persona di Don Tano Badalamenti che fu riconosciuto come mandante dell’omicidio solo nel 2002 e per questo condannato all’ergastolo, in combutta con il suo vice Vito Palazzolo, condannato a 30 anni.

Un aspetto poco conosciuto del giornalismo militante di Peppino fu l’inchiesta sulla strage di Alcamo Marina nella quale persero la vita due carabinieri e dove furono i CC stessi ad incolpare giovani del posto assolutamente estranei alla vicenda i quali furono anche torturati perché venissero estorte loro verità confezionate. Sembra che del misfatto fossero coinvolti mafia , Gladio e la stessa Benemerita. Gli stessi carabinieri depistarono sulle prime le indagini sulla morte di Peppino che conservò, dell’inchiesta su Alcamo, i dati in una cartellina. I documenti furono sequestrati dai carabinieri in casa Impastato e mai più restituiti alla famiglia.

Dopo la sua morte, furono la madre Felicia Bartolotta ed il fratello Giovanni, disancorati dalla cultura mafiosa, a fondare il Centro Impastato che pubblicherà nell’86 la biografia di Felicia («La mafia in casa mia»), narrazione di una scomoda convivenza con una cultura di sopraffazione e di morte.
Oggi il Centro, diretto da Giovanni e dalla impareggiabile moglie Felicia, coadiuvati dalla figlia Luisa ed Evelyn, due infaticabili volontarie che nel tempo sono destinate a diventare la memoria di questa avventura civile, è attivissimo sul territorio nella battaglia di legalità iniziata da Peppino. Si interessa di studenti e formazione, di bullismo e logica mafiosa, di mutualismo; quest’anno, il Covid19 ha interrotto il solito appuntamento del 9 maggio che si sarebbe articolato lungo tre direttrici: un convegno sul dialogo tra istituzioni e associazionismo, uno su antimafia sociale, l’altro su antirazzismo, antifascismo e decreti di sicurezza. Anche la veglia al casolare dove Peppino trovò la morte è, per ovvi motivi, sospesa.

Il casolare, divenuto luogo di «interesse culturale e nazionale» e sottoposto a vincolo dai Beni Culturali, è da ultimo oggetto di dispute o, preferiremmo dire, di baruffe chiozzotte. Non poteva mancare, nella tragedia, la farsa. Il manufatto è stato valutato 80.000 euro e, alla luce di quanto è visibile (una costruzione di pietra lavica che cade a pezzi, con il tetto sfondato, per anni ritrovo notturno di alcolisti, tossici e amanti di rapina, latrina per incontinenti) riesce difficile capire una valutazione del genere. Ne è proprietario il farmacista di Cinisi, il dottor Venuti il quale, intuito il business («se ci hanno ammazzato Peppino Impastato varrà molto, molto di più») , lo vende a 500.000. La Regione, alla fine, lo esproprierà riconoscendo al pittoresco farmacista 100.000 euro, una somma comunque esorbitante per quattro sassi in croce.

Al centro di Cinisi, sul corso principale, sulla sinistra procedendo verso il Municipio, il magnifico palazzo dei Benedettini del ‘600, sorge la ex casa di Badalamenti dove viveva allora il mafioso che decretò la condanna di Peppino, lontana dalla casa di questo cento passi, la misura che diede il titolo al coraggioso film di Giordana. Contestualizzando (epoca e ubicazione geografica), la casa era una vera e propria reggia.

Oggi, nei suoi locali ha sede la Biblioteca comunale ed è oggetto di pellegrinaggio, unitamente al Centro, da tutta Italia. Associazionismo, coscienza civile, aneliti di libertà sono alla base della visita di scolaresche e di privati che si affacciano incessantemente al Centro. Povero quel Paese che ha bisogno di eroi ma tant’è: Peppino è nuovo nel Pantheon e potrebbe essere un’idea dedicargli una giornata in memoria, perché non si dimentichi mai -al pari della Resistenza che ci fece liberi- che il suo sacrificio ha fatto più libera la vita di ciascuno di noi. Dai brandelli del corpo martoriato di Peppino crescono ancora fiori.