Il fotogiornalista russo Andrei Stenin morì a soli 34 anni, nel 2014, mentre documentava la guerra in Ucraina. A lui è intitolato il premio internazionale che seleziona gli scatti migliori fra i reporter del mondo. E, pur se slittata a causa della pandemia, la mostra apertasi a San Donato Milanese (visitabile fino al 30 giugno, con la collaborazione del comune e del Gruppo Fotografico Progetto Immagine), nell’ambito di Cascina Roma Fotografia, invita il pubblico italiano a una full immersion nel mosaico umano planetario – si va dagli abitanti dell’isola di Mousuni fino all’estremo paesaggio artico di Wrangel – con i 77 scatti selezionati attraverso 6.000 candidature provenienti da 80 paesi. Quattro le sezioni a imbastire il percorso – Notizie principali, Sport, Il mio pianeta e Ritratto. Un eroe del nostro tempo – all’interno delle quali si trova anche la narrazione dell’italiano Danilo Garcia Di Meo, classe 1989. Quatrani. I figli del terremoto è un «pedinamento» empatico dei giovani residenti dell’Aquila.

Come si è sviluppato il suo progetto e soprattutto come è nato il rapporto di confidenza con i soggetti ritratti?
Il primo incontro con L’Aquila è avvenuto più di due anni fa per documentare lo stato delle cose delle città e delle sue periferie, della ricostruzione e della distruzione dopo quasi dieci anni dal sisma. In quei primi giorni, ho frequentato molte persone e, tra le tante testimonianze ascoltate, il racconto ricorrente era proprio quello che descriveva i bambini cresciuti senza città. L’Aquila era spesso definita la «città fantasma». Sono entrato così in contatto con Enrico, che mi ha preso per mano e poi introdotto nel suo gruppo di amici. Grazie a lui e a sua madre Barbara, ho avuto la possibilità di conoscere in maniera approfondita la storia della città prima del sisma. Mi hanno raccontato dei duri anni successivi e della rete che gli adulti hanno dovuto tessere per fronteggiare le difficoltà prendendosi cura di quei bambini, un’intera generazione che era diventata fortemente a rischio. A fronte della dimensione materiale non incoraggiante e della totale assenza di luoghi di incontro, le ultime generazioni hanno risposto con una forte solidità nei legami di amicizia, il loro vero luogo di salvezza e ritrovo.

I bambini della catastrofe del 2009, ora sono giovani adulti in cerca di «piazze» della condivisione… Come vedono la loro città? Quali sono i loro pensieri ricorrenti?
Quando una città si ritrova a vivere un trauma come questo si pensa immediatamente alla ricostruzione della dimensione materiale e urbanistica e, solo successivamente, a quella sociale. Ho scelto di narrare le biografie di questi ragazzi perché da una situazione di difficoltà evidente, sono riusciti a trovare i propri strumenti attraverso una risposta affettiva resiliente.
Si ricostruisce qualcosa di cui si ha memoria. Alcuni di loro mi hanno confessato che negli anni successivi al sisma, andavano nelle case per cercare foto di quella che era la vita lì. Cercavano di possedere dei ricordi attraverso le vite degli altri. E pur sapendo che l’Aquila era una città bella, dovevano immaginarsela. Da qui la consapevolezza che la stretta definizione di «ricostruzione» riguardi più le generazioni adulte (che ovviamente sono la memoria sociale e culturale di una comunità) mentre per le più recenti, come quella cui appartengono i «miei» quatrani, rappresenta maggiormente l’occasione per la costruzione di una nuova città. La loro città. È anche per questo motivo che il progetto vuole mostrare L’Aquila attraverso i loro volti e storie, e non solo con i cantieri e le macerie.

L’Aquila per un fotografo è però un «cantiere infinito», in cerca di identità…
Quello che ha catturato la mia curiosità prima, tutto il mio interesse dopo, è stata l’identità di questi giovani. Oggi più che mai sanno di aver sviluppato maturità e consapevolezza nelle emergenze. Se non sbaglio L’Aquila è oggi il cantiere più grande d’Europa. Il numero di gru che si possono vedere dalle montagne intorno la città è da vertigine. Questa dimensione sospesa, figlia anche della burocrazia che non aiuta la ricostruzione della città, si unisce a un’adolescenza che è cresciuta prima del dovuto e si è responsabilizzata; per certi versi richiama, con le dovute differenze, quella di Belfast.

Cosa sceglie di narrare il reportage, qual è il fil rouge che lega gli scatti?
Quando sono arrivato all’Aquila, il primo giorno è stato caratterizzato da un forte impatto. Non mi ero mai trovato in una città terremotata e spesso ho faticato a scattare foto. C’è un grande trasporto emotivo quando si arriva in luoghi in cui il tempo si è bruscamente fermato, interrompendo progetti, sogni e attività di donne, uomini, bambini e anziani.
L’incontro con Barbara ed Enrico (che sono ormai la mia famiglia adottiva aquilana) mi ha fatto scoprire dal di dentro una parte importante della città abruzzese che resiste: i giorni delle «carriole». Le assemblee in piazza tra commercianti e cittadini. I genitori che, nonostante la difficoltà di essere adulti consapevoli di ciò che stava accadendo, hanno fatto scudo intorno ai loro figli, rendendoli forti ma soprattutto uniti nonostante l’assenza di piazze, parchi, vicini di casa e luoghi d’incontro.
Il fil rouge è arrivato con il tempo trascorso insieme: passavano i mesi e aumentavano gli scatti che mostravano sorrisi, baci e abbracci tra di loro; un legame e un contatto fisico fraterno unito non dal legame di sangue ma dall’esperienza comune.