«Alcuni dicono che Reger sia pazzo, perché solo un pazzo può recarsi per decenni un giorno sì e un giorno no, il lunedì escluso, alla Pinacoteca del Kunsthistorisches Museum». Affacciato sulla Ringstrasse, prova tangibile di una magniloquenza asburgica squadernata su marmi, stucchi e ori, il Kunsthistorisches Museum di Vienna è lo scrigno dove Francesco Giuseppe convoglia la smania collezionistica di imperatori e arciduchi d’Austria, facendovi affluire, in gran copia, il tesoro artistico della casa regnante, con capolavori di tutti i tempi e una pinacoteca d’arte moderna che accosta Dürer a Raffaello, Rembrandt a Rubens, Tiziano a Velázquez, Vermeer a Brueghel. Dentro il museo, nella geometrica suddivisione degli spazi, la sala Bordone offre al visitatore una panca rivestita di velluto e, di fronte, il celebre Uomo con la barba bianca di Tintoretto, ritratto a olio eseguito poco oltre la metà del Cinquecento, dove un vecchio, dallo sguardo penetrante e saputo, fissa lo spettatore, il corpo tutt’uno con lo sfondo nero, una mano inanellata a reggere il lembo del mantello.
È questo il quadro che, da trentasei anni, costituisce l’oggetto dell’osservazione attenta e minuziosa di Reger, musicologo ottantaduenne, appassionato d’arte e di filosofia, critico del Times, apprezzato all’estero e bistrattato in patria, vedovo non da molto. Un vecchio signore che ripete, con liturgica puntualità, lo stesso schema.

giorni alterni, con sequenza invariata e costante, Reger trascorre la mattinata al Kunsthistorisches Museum, il pomeriggio al lussuoso Hotel Ambassador del centro. Il sacrario della cultura, è dunque seguito a distanza di poche ore da un luogo profano ma altrettanto sfavillante, già frequentato da Mark Twain e Marlene Dietrich, a imprimervi con più forza il marchio della socievolezza e del décor. Un luogo che, però, Reger abita senza essere socievole, seduto sempre allo stesso tavolo, in costante ruminazione mentale. Chi cercasse facili diagnosi, potrebbe con agio scomodare le categorie, autorevoli e pronte all’uso, di coazione a ripetere, serialità, stereotipia compulsiva. Ma non è solo questo a muovere Reger. C’è, certo, un cerchio ossessivo del pensiero, forse anche il pungolo di un’idea fissa, ma occorre spingere lo sguardo più in profondità e intenderne l’innesco e il contenuto.

Alla scoperta dell’errore
Il protagonista di Antichi maestri, celebre romanzo di Thomas Bernhard apparso in originale nel 1985 e sette anni dopo nella magistrale traduzione italiana di Anna Ruchat per Adelphi, è ormai personaggio iconico, fisso nell’immaginario, alla stregua di Oblomov, Bartleby, Mickey Sabbath e dei molti strambi, lunatici e strologanti a vuoto di cui si affolla il canone romanzesco otto-novecentesco. A mezza via tra il filosofo, il burbero benefico e il misantropo, Reger è l’estenuazione di un perfezionismo che, tendendosi allo spasimo, si rovescia nel suo contrario. Nei capolavori dell’arte, il suo sguardo cerca, fino a ravvisarli con infallibile precisione, i difetti, le incongruenze, i dettagli mal riusciti.

Sensibilissimo alla minaccia del compiuto e del totale, che trascorre facilmente nella tentazione del totalitario, nemico giurato della nozione, allergico a ogni didascalia, sull’arte acclamata e conclamata Reger opera una reductio ad fragmentum. La scoperta dell’errore scompone la plumbea totalità in una serie di frantumi artistici che, nel loro acume, svincolano dal peso normativo del capolavoro, rivelando, nell’incompiuto e nell’imperfetto, la traccia del genio. Così, per la via della dissezione, Reger stempera la sacralità totemica dell’arte ufficiale, la seduzione della bella forma come sottile prolungamento di uno Stato sempre pronto a imbrigliare l’individuo. Lo sguardo a fondo, il taglio trasversale, la sezione obliqua sono dunque, per Reger, un tentativo di libertà che fa esplodere la seria e rotonda totalità dell’arte in un riso convulso, nella smorfia della caricatura che tuttavia, nella sua acuta consapevolezza, rasenta sempre il margine della disperazione. Si spiega così il sottotitolo del romanzo, Commedia, a sottolineare la liberazione dalla pretesa oppressiva di ogni opera dello spirito.
Non c’è molto di fattuale in Antichi maestri. Forse neppure una trama, solo la triangolazione dello sguardo, e della voce, tra il protagonista Reger, il dicitore – non si tratta, infatti, di una vera istanza narrante – Atzbacher, studioso in proprio che da decenni lima la stessa opera senza pubblicarne neppure una riga e che, su queste pagine, filtra, riporta e rilancia il punto di vista di Reger. Infine Irrsigler, custode del museo nonché megafono e ripetitore, per quotidiano sentito dire, del pensiero di Reger. Neppure una Sala Bordone esiste al Kunsthistorisches Museum, ma ciò non sposta minimamente l’asse narrativo.

Tutto lo spazio racchiuso dall’incrocio di questi sguardi ospita, per discorso riportato, la voce monologica e monolitica di Reger che rovescia sul lettore, a cascata, la propria requisitoria contro l’umanità, la cultura, lo stato, la chiesa cattolica, Vienna, l’Austria ma soprattutto contro l’arte. Per mezzo di monologhi battuti a martello – memorabili quelli rivolti contro Anton Bruckner, Adalbert Stifter e Martin Heidegger – Reger, o chi ne porta la voce, dà luogo a un irrefrenabile flusso di parola, più che di coscienza. Una possessione verbale che trasforma il discorso in una litania ritmicamente sostenuta, dove l’uso della ridondanza e la ripetizione apodittica illuminano i nodi insoluti del pensiero.
L’eccezionale parossismo di quest’uomo, continuamente in bilico tra delirio e deliquio, consiste nel far coincidere, senza residuo, l’intera realtà con il contenuto del pensiero, in un’ipertrofia cerebrale che finisce per inghiottire ogni prossimità. La natura, le cose, gli altri diventano, così, mero riflesso di una mente sopraffatta dal pensiero dominante: «Solo dopo aver constatato ripetutamente che il tutto e il perfetto non esistono», enuncia Reger per bocca altrui, «solo allora ci è dato di continuare a vivere». A partire da questo assunto, è un continuo andare a capofitto nelle più trancianti invettive, nelle sentenze più inappellabili sui fallimenti di Bach e Beethoven, sulla sprovvedutezza di Voltaire, sul pennello di Velázquez alla mercé del potere, su Dürer cesellatore dalla mente angusta, su El Greco incapace di dipingere le mani, con la lapidaria causticità di uno sguardo sul mondo che fa ridere e piangere insieme.

Fin dove la parola ammutolisce
L’orchestrazione iperbolica e tuttavia sottile del discorso, il tratto furioso della riflessione, la determinazione monomaniacale, la scansione musicale dei monologhi, contigui alla figura melodica dell’ostinato, sono i lineamenti di Reger che parla allo stremo, fin dove la parola rasenta lo sgretolarsi e l’ammutolire. Fin dove la sintassi diventa, o torna a essere, suono di natura. La creazione di una difficile, e artificiosissima, corrispondenza tra i contenuti della mente e la realtà non si dispiega con armonia, ma è spasimo e tensione di nervi, alla ricerca della chiave che risolva il mondo, di una trama razionale – a maglie strettissime e sempre sul punto di lacerarsi – da far aderire alla realtà, così da ingabbiare ciò che, per sua legge, sfugge a ogni controllo. Già in partenza votata allo scacco, la forsennata smania intellettuale, propria di Reger e di molti altri personaggi bernhardiani sulla stessa falsariga, è l’ultima obiezione all’indifferenza elementare della natura che rende grottesca ogni impresa umana.

Un estremo bastione del pensiero che nell’arte, pur tanto lesa e vituperata dalla sferza della polemica, intravvede, ancora e sempre, l’unica via di salvezza: «Anche se la malediciamo e se a volte ci sembra del tutto pleonastica, e se anche siamo costretti ad ammettere che essa in realtà non vale un accidente (…) malgrado tutto non c’è nient’altro che salvi la gente della nostra fatta se non proprio quest’arte maledetta e dannata, e spesso funesta e disgustosa da far vomitare».