Sulle prime neanche ci facevamo caso; ma continuando a percorrere ormai da giorni l’ampio lastricato, quel tavolame da cantiere a forma di cubo innalzato proprio nel mezzo non tardò ad attirare l’attenzione: che ci stava a fare lì e cosa poteva nascondere? Incuriositi dall’ingombro che, sebbene contenuto in dimensioni, cominciava ad apparire un’intrusione nell’armonia dell’insieme, sbirciammo da uno spiraglio all’interno delle assi impenetrabili: una fontana, o meglio una comune fontanina utilizzabile per bere si ergeva inaspettata dalla pavimentazione di piazza San Marco. La presenza di un simile manufatto avrebbe potuto generare stupore nel salotto di Venezia. La storia, intanto, ci dice che gli abitanti attingevano ai pozzi sparsi nei campielli per dissetarsi. Giusto cent’anni prima (dal 1984, di cui si narra) l’acquedotto aveva raggiunto la città portando la potabile dalla terraferma. Fu un evento, salutato dalla costruzione a San Marco di una fontana con vasca, che poco dopo venne rimossa.

Per il centenario dell’acquedotto in città dunque, sindaco a Venezia il socialista Mario Rigo, veniva riproposta una fontana (quella che avevamo sbirciato), nello stesso posto, tra il Florian da un lato e il Quadri dall’altro, due dei caffè storici della piazza. In pochi se ne accorsero. Che fosse stata installata come arredo urbano commemorativo, da scoprire al momento opportuno? Fatto sta che l’intento non ebbe possibilità di venir reso palese: intervenne la sovrintendenza ai beni ambientali facendola smontare insieme con l’impalcatura che la precludeva alla vista dei passanti. I tanti passanti che allora, come oggi, a decine di migliaia attraversavano ogni giorno piazza San Marco.

I centri storici sono cumuli di stratificazioni, nel processo costruttivo delle città, che si tramandano mediante il restauro architettonico. Quest’ultimo, con la restituzione all’integrità originaria che non consente contaminazioni, pur minime, di fontanine o altro, è un procedimento tecnico intrapreso, concretamente, solo nel secondo ’900 (dopo le rovine della guerra e, ancor prima, gli sventramenti urbanistici perpetrati dal fascismo), quando ha cominciato a diffondersi la cultura della conservazione. Il restauro è ripristino e anche conservazione, che spesso confligge (non sempre spuntandola) con quella stessa entità da tutelare, variabile e multiforme, in evoluzione permanente, che è la città. Una città d’arte e di turismo (e quindi di business) come Venezia. La quale negli ultimi decenni è stata man mano rivoltata, sviscerata fin dentro la sua anima e barattata con le ondate di visitatori oramai incalzanti che la città non riesce più ad assorbire e a macerare. Resta l’involucro, intoccabile, di ciò che era definita Serenissima (equivalente ad ammiratissima), quinte di palazzi in parata sul gran Canale svuotati di residenti e di funzioni. Di autenticità. Venezia maschera di se stessa (non per niente città simbolo del carnevale): conta l’immagine, il belletto (il falso camuffato da originale), da conservare e tramandare. Con buona pace dei conservatori a cui basta, e avanza, salvaguardare le facciate.