Nelle tragiche vicende che affliggono il mondo, quando un capo di governo o di stato sceglie la strada della repressione violenta, viene sempre da chiedersi che ruolo ha sua moglie, altrimenti detta first lady. Fra queste, una delle figure che suscitano più interrogativi è quella di Emine Erdogan, consorte del presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan.

Nata a Istanbul nel 1955, Emine è la quinta figlia di una famiglia di origine araba proveniente da Siirt, nel sud est della Turchia. Quando conosce il futuro marito è già interessata alla politica, fa parte come lui del Welfare Party e ha abbandonato, sembra con molto dispiacere, la scuola d’arte a cui era iscritta. Lui si innamora così perdutamente di lei che osa sfidare la volontà della madre che aveva già scelto per lui una ragazza molto più osservante e che indossava il chador. Erdogan, per vincere la resistenza materna, smette di mangiare e dimagrisce così tanto da sembrare un fantasma, come aveva detto la scrittrice Sule Yukser Senler che in quel periodo faceva da tramite fra i due. Vince lui e il 4 luglio del 1978 sposa Emine.

Il ruolo di lei, che gli amici hanno descritto come donna intelligente e con senso dell’umorismo, è fondamentale per l’ascesa politica del marito che nel 1994 diventa sindaco di Istanbul, nel 2003 capo del governo, nel 2014 presidente. Per facilitare la carriera del consorte, nel 1998 Emine passa dallo sciafeismo (versione ortodossa dell’islam sunnita che proibisce qualunque contatto fisico fra un uomo e una donna se non sono sposati) alla scuola di Hanafi che le permette di stringere le mani anche a donne e uomini non musulmani. È lo stretto indispensabile per fare gli onori di casa come futura first lady.

Se non è dato sapere quanto peso abbia Emine nelle decisioni politiche del marito, di sicuro la sua immagine pubblica è quella di una donna che sta al suo posto. Ingabbiata negli abiti, i copricapi che le fasciano testa e collo fanno pensare a bende mummificanti. Il bel viso, perfettamente truccato, sembra di gesso. Se le maniche degli abiti sono troppo corte, il pezzo di braccio che spunta è coperto da maglie aderenti che arrivano fino alle mani. Sotto i lunghi cappotti o soprabiti indossa solo pantaloni. Sono indizi che svelano quanta fobia ci sia in quella famiglia, perché anche le due figlie si vestono così, per tutto ciò che libera il corpo e l’espressione.

Quando nel 2009 Emine fece visita alla Casa Bianca, incontrò Michelle Obama e non poté sottrarsi alle foto di rito. L’immagine delle due first lady affiancate non mostra solo la differenza fra due stili, ma evidenzia in modo quasi feroce due concetti opposti di vita. C’è soprattutto una foto che parla. Emine è a sinistra, infagottata in un abito lilla tutto drappeggi e arricciature, una terribile ruche sulla spalla sinistra che fa pensare a un serpente incartato, il collo fasciato dal velo e anche dall’abito. Viene voglia di dirle: slacciati un po’ che respirerai meglio.

A destra c’è Michelle. Non sono tanto i venti centimetri in più a impressionare, ma la sicurezza con cui Michelle porta le braccia nude, il sorriso aperto, i gioielli che richiamano l’Africa, l’abito fluido. Al contrario di Emine, Michelle sembra una donna che sta bene nel suo corpo, che ha rifiutato gabbie e ruoli precostituiti, che non ha accettato di sentirsi dire da nessun uomo o ordine religioso o politico come vestirsi o comportarsi, che ha potuto scegliere chi essere e come esserlo. Quella foto mostra come, a parità di intelligenza e di ruolo, il poter scegliere fa una gran differenza su quello che si diventa. E questo, purtroppo, i dittatori lo sanno.

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