Cultura

Una figura ancestrale con la potenza della trasformazione

Una figura ancestrale con la potenza della trasformazioneThe Venus of Willendorf – foto Ansa

Indagini «Grandi madri mediali», il saggio di Roberta Bartoletti in seconda edizione aggiornata, pubblicato da Liguori. Nel libro si indaga la reviviscenza nel cinema, nel fumetto e nella fiction

Pubblicato circa un anno faEdizione del 1 agosto 2023

Le statuette di Hohle Fels, di Willendorf e di molti altri siti del mondo, chiamate erroneamente «Veneri» preistoriche e considerate i più antichi esempi di arte figurativa, non sono solo l’emblema della fertilità. Testimoniano di società in cui prevaleva il culto per la Madre terra e la donna, con la sua potenza di trasformazione e creazione, aveva un ruolo guida. Insegnava a gestire le attività agricole rispettando le fasi della semina e del raccolto, analoghe al ciclo della vita umana come nascita, morte e rigenerazione.

L’ETÀ DEL BRONZO e i sistemi inclini all’uso e alla fabbricazione delle armi sono subentrati a questa cultura, sancendo il salto dalla terra-madre e dalle divinità ctonie al cielo-padre delle divinità uraniche. Atena, dea della guerra, nasce non da un ventre femminile ma già adulta e armata dalla testa di Zeus per affermare la supremazia del maschio. Il mito greco traduce una concezione dei rapporti familiari e politici per cui è l’uomo a trasmettere l’eredità della «pianta». In parallelo e in seguito Afroditi, Veneri romane e ninfe moderne, con un sex appeal tutto in prospettiva maschile, concorreranno a ridurre poteri e saperi della donna alla sola dimensione sessuale e seduttiva e ad inculcare il patriarcato nella coscienza delle società umane. Ma l’immagine delle dea madre perdura.

Grandi madri mediali, il saggio di Roberta Bartoletti (Liguori, pp. 168, euro 20,90) in seconda edizione aggiornata, indaga questa figura ancestrale, risalente a 35mila anni fa, e ne ipotizza la reviviscenza nel cinema, nel fumetto e nella fiction contemporanei.

IL PRIMO CAPITOLO, a firma di Lorenzo Giannini, è un’analisi sincronica e diacronica, forte del lavoro archeologico di Marija Gimbutas, della dea madre: tratti fisici – seni e natiche sproporzionati e ventre gravido – contesti d’uso e rituali – luoghi per il parto, sepolture, campi, templi, forni per il pane – e animali a lei associati, simbolo di rigenerazione: orse, uccelli, serpenti, cervi, rane.

A livello semantico, oltre al legame indissolubile fra natura e cultura come aspetti di una stessa dinamica, emerge un’ambivalenza vita-morte che rende la dea prolifica, ma anche pericolosa e terribile. Ecco allora lo sdoppiamento terra e inferi nelle coppie madre-figlia della civiltà classica Demetra-Persefone e Cerere-Proserpina, più tardi convertite nel binomio cristiano Sant’Anna-Maria distinguendo però progressivamente le capacità terapeutiche e miracolose dalla stregoneria, il lecito dall’illecito.

I MEDIA DI MASSA, predisposti ad accogliere motivi transculturali, offrono alla dea madre ambienti adatti da abitare. Tre film di Hayao Miyazaki, da un lato, e l’universo delle supereroine mutanti DC Comics e Marvel, dall’altro, sono esaminati – nota Gino Frezza nella postfazione al libro – con una domanda più ampia rispetto ai consueti studi di genere ed etnici della sociologia dei processi culturali. Le produzioni mediali che presentano questo soggetto riescono a trasformare cognitivamente ed emotivamente i pubblici, a fornire diverse versioni del ruolo del femminile, a far meglio comprendere le soglie della vita personale e pubblica, le difficoltà della crescita e dei cambiamenti? Hanno ancora l’efficacia simbolica del mito o qui la dea madre è solo sfruttata per l’intrattenimento?

Per rispondere Bartoletti adotta la tesi psicoanalitica di Jung e dei suoi allievi Erich Neumann e Marie Louise von Franz sulla «grande madre» come archetipo. L’inconscio collettivo, virtuale e imprendibile, può essere colto attraverso nuclei di significato, gli «archetipi», aventi matrici comuni perché connessi alle condizioni fondamentali di vita sulla terra.

L’ARCHETIPO PERMETTE di rafforzare la coscienza individuale e di respingere le conflittualità della psiche. Interessata non all’essenza della dea madre ma al suo divenire, Bartoletti mostra che in Nausicaa della Valle del vento (1982), Principessa Mononoke (1997) e La città incantata (2019) di Miyazaki, almeno tre categorie di figure femminili convocano questo archetipo: anziane potenti e sagge (O-baba), coppie ambivalenti, salvatrici e distruttrici (Yubâba/Zeniba), e personificazioni di Madre Natura (la foresta sacra versus la giungla tossica). L’autrice vi ritrova una capacità di integrare gli opposti, propria della grande madre del mito, che le eroine del fumetto occidentale non hanno.

TEMPESTA (STORM), dea della pioggia riconducibile alla Oiá-Iansã del sincretismo afro-brasiliano, e Jean/Fenice Nera, soprattutto nella versione cinematografica di Dark Phoenix, sono mutanti ideologicamente create per avere paura del loro potere divoratore, mutilate nella capacità di esprimere il male e di farlo sfociare in una rigenerazione. Muoiono e resuscitano sempre uguali. Soffrono delle continue rettifiche e inversioni, fra sviluppi paralleli, riprese in saghe distinte, prequel e sequel. Questo però dipende dai margini di manovra delle cabine di regia. L’archetipo della grande madre oggi deve resistere alle leggi del marketing.

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