A quale governo dovrebbero votare domani la fiducia i senatori (e poi i deputati) che intendono evitare la crisi? È una domanda rimasta sullo sfondo dei tentativi che palazzo Chigi e il Quirinale stanno mettendo in campo per trovare una soluzione a un grosso problema politico che è diventato anche un passaggio costituzionalmente complicato. Tanto complicato che ieri mattina c’era ancora chi si augurava che il presidente del Consiglio fosse costretto ad andare avanti senza un voto di fiducia, accontentando così anche tutti i tifosi di una navigazione (breve) a vista. Ma Enrico Letta ha gelato queste speranze, e il ministro Dario Franceschini ha chiarito che «la volontà del governo è di andare a un chiarimento, quindi di porre la questione di fiducia».

La difficoltà sta nel fatto che la Costituzione italiana prevede che la fiducia venga data o tolta dalle camere a un governo non solo sulla base del suo programma, ma anche della sua composizione. L’esecutivo Letta si presenta adesso senza cinque ministri, tutti importanti e almeno un paio – Interni e Salute – fondamentali. Ministri che non sono stati neanche sostituiti, non si può pensare che sia stato il presidente del Consiglio ad aver assunto le deleghe ad interim, visto che Letta ha evitato questo passaggio formale proprio per lasciare la porta aperta al ritorno a casa delle «colombe». È vero che dal punto di vista formale le dimissioni dei ministri diventano operative nel momento in cui sono accolte dal Consiglio dei ministri – cosa che lo scorso Consiglio non ha fatto, anche se è precipitato in un litigio tra il premier e il capo-delegazione del Pdl – ma non c’è dubbio che nessun parlamentare domani nel momento in cui dovrà esprimere la fiducia potrà far finta di credere che i ministri del Pdl sono ancora al loro posto. La mossa con cui ieri i cinque diversamente berlusconiani hanno ufficializzato le dimissioni «irrevocabili» ha tolto ogni alibi, e costretto palazzo Chigi a un breve comunicato in cui si prendeva atto del gesto. Fermandosi lì, senza compiere il solo passo costituzionalmente corretto che sarebbe stato la presentazione delle dimissioni dello stesso presidente del Consiglio al Quirinale.
La confusione creata da Berlusconi ha favorito una via d’uscita del genere. I passi in avanti e poi indietro del Cavaliere indecisionista, ma anche le dichiarazioni dei ministri che si dimettono e poi si dissociano dalle dimissioni, hanno oggettivamente complicato il quadro. Nell’unico precedente che si può richiamare, quello del 1990 quando si dimisero in blocco i ministri della sinistra democristiana (cinque anche allora) per protesta contro la decisione del governo di porre la fiducia sulla legge Mammì (anche allora erano in ballo gli interessi del Cavaliere), ad Andreotti fu consentito (da Cossiga) di andare avanti con un semplice rimpasto perché non si trattava allora del venir meno di tutto un partito dalla coalizione, ma solo di una componente. In ogni caso allora la fiducia fu votata al governo «rimpastato», quello con Rognoni al posto di Martinazzoli, Bianco al posto di Mattarella… cioè le camere sapeva per chi stavano votando.

Consapevole di queste difficoltà, il presidente della Repubblica ha enfatizzato nella sua nota di domenica «il clima di evidente incertezza» causato dalle dichiarazioni di Berlusconi e degli stessi ministri dimissionari, trovando la formula del rinvio del presidente del Consiglio alle camere non per la questione di fiducia ma «per le proprie valutazioni sull’accaduto e sul da farsi». Napolitano del resto condivide con Letta l’urgenza di «parlamentarizzare» una crisi nata ad Arcore. Ma non essendoci state né le dimissioni del governo né un nuovo incarico, ed essendo ancora a livello di ipotesi la composizione di nuovo governo, domani non ci sarà una fiducia «originaria». L’esecutivo dimezzato potrà porre la questione su una mozione presentata dalla maggioranza residua. «Ci sono delle formalità da rispettare», ha detto ancora il ministro Franceschini, spiegando che l’ultimo Consiglio dei ministri si era ricordato di autorizzare questo passaggio.

La volontà di parlamentarizzare la crisi, in queste ore si scontra con l’esigenza di Letta, condivisa al Quirinale, di non presentare le proprie dimissioni. Una situazione complicata che ricorda piuttosto un altro precedente, quello del 1987 quando Craxi informato delle dimissioni dei ministri dc non si fece trovare per 48 ore, durante le quali cercò una soluzione alla crisi, e non la trovò. Una situazione complicata che Letta potrebbe risolvere se si accorgesse prima del voto di non avere i numeri, evitando alla fine di chiedere la fiducia per metà governo.