Una strana forma di afasia è andata a colpire un’intera generazione, come fosse sotto shock, la gioventù cresciuta nel mezzo della crisi, cioè quel decennio appena trascorso che ha sconvolto i piani di chi credeva in un futuro roseo e in uno stipendio adeguato alle proprie competenze e qualifiche.

IN VENETO, dove il lavoro è una religione e dove la disoccupazione uno stigma, per lungo tempo è come se le parole fossero andate perdute, e ancora oggi una terra confusa e in crisi d’identità fatica a ritrovarsi e a raccontarsi. A rompere il silenzio in questi anni sono arrivati una manciata di libri, che rinunciando alla narrazione vera e propria (vista la difficoltà di ricostruire una storia, ancora così dolente e frammentaria), hanno in parte aiutato a riconquistare una voce. Francesco Targhetta, con il suo romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie, ritratto di una generazione paralizzata nella sua impotenza. Cartongesso di Francesco Maino, lunga e delirante (ma eccezionale pezzo di letteratura) invettiva sul paesaggio che scompare e la società che si incattivisce. Ginevra Lamberti, con il suo esordio La questione più che altro (tradotto anche in Francia), per prima riusciva a ritessere i fili della narrazione, a scrivere un romanzo, vero e proprio, che con grazia e un tenace amore per il surreale descriveva l’antropologia del nuovo precariato.

Ora, in Perché comincio dalla fine (pubblicato da Marsilio – pp. 208, euro 16,00 – dopo il passaggio da Nottetempo), è la realtà a irrompere con prepotenza. Il libro è un esperimento atipico, che si muove tra testo autobiografico e saggio di non fiction, con reportage, interviste, il diario dell’autrice (o di un suo credibilissimo alter ego) dall’uscita del primo libro a oggi. Al centro di tutto, c’è la riflessione sulla morte, che è il grande rimosso del nostro tempo. E questo vale tanto più per una generazione costretta a saltare da un lavoretto all’altro, in cui spazi di vita, sogni ed entrate economiche sono lì a contendersi furiosamente attenzione e priorità. In questa eterna lotta per pagare le bollette, tra il lavoro come affittacamere per turisti a Venezia e la difficoltà di trovare una stanza tutta per sé dove scrivere, il pensiero della morte non trova posto.

MA È PROPRIO la riflessione sulla fine, che può aiutarci a dare un senso, al nostro tempo e al nostro spazio. In aiuto dell’autrice arrivano l’agenzia funebre Taffo (ormai famosissima grazie ai social), la band dei Camillas, una tanatoesteta e una professoressa del master universitario in Death studies dell’università di Padova, teorici della dispersione delle ceneri e inventori di loculi pronti a diventare alberi. Tra una gita all’isola di San Michele, il cimitero di Venezia, e un periodo di residenza per scrittori in Cina, dove alcuni colleghi stranieri riportano le proprie esperienze di prossimità con la morte, si compone un quadro che ci ricorda, se non altro, che la morte c’è e ci riguarda tutti. E che parlarne è il modo migliore per riprendere a vivere, meglio che possiamo.