Sbarca in Italia lo scrittore svedese Mikael Niemi, sarà ospite a Più libri più liberi per presentare il suo nuovo romanzo, Cucinare un orso, pubblicato come i precedenti da Iperborea (l’incontro è domani, alle ore 17.30, sala Polaris). Niemi nacque nel 1959 a Pajala, cittadina svedese al confine con la Finlandia, raggiunse il successo col romanzo Musica rock da Vittula, bissato poi con altre opere quali Il manifesto dei cosmonistiL’uomo che morì come un salmone, La piena. Ora, conosciamo bene quanto i tanti protagonisti della nouvelle vague scandinava siano immaginativi e, soprattutto, scrupolosi artigiani. Il loro sguardo indaga costantemente le lente modificazioni del paesaggio, captano i movimenti di quella cosiddetta «natura» che li circonda.

AL CONTEMPO, il loro interesse insegue i movimenti dei personaggi, scardina i silenzi delle stanze e della camere, getta luce su eventi passati e quasi dimenticati, ma non del tutto. Si gioca con le ambiguità che reggono le dinamiche sociali – basti pensare a Arto Paasilinna e a Jón Kalman Stefánsson, ma non di meno ai tanti giallisti quali Henning Mankell o al teatro di Jon Fosse – in queste città che paiono comunque sempre paesi troppo cresciuti. Il passato rivive nel presente e il futuro diventa un inciampo nel passato che non finisce mai di scappar fuori.
Ed è proprio così che accade nella narrazione di Cucinare un orso (pp. 480, euro 19), vasto romanzo ambientato nella comunità lappone, in quel mondo antichissimo ai margini artici, fra i Sami, popolo che occupa i confini superiori della penisola scandinava, su estesi territori isolati, e oggi suddivisi fra quattro stati: la Svezia, la Finlandia, la Norvegia e la Russia. Hanno le loro tradizioni, i loro costumi, la loro bandiera, le loro slitte, le loro renne, la loro religione.

NON SIAMO però nei nostri giorni, siamo nell’estate del 1852, in un aitta (granaio) viene rinvenuto il corpo della giovane Jolina. Traumatizzata non riesce a parlare, fissa con occhi sbarrati, sputa saliva e sembra posseduta da un demonio. Il giorno dopo, la ragazza esce nel bosco e si toglie la vita, impiccandosi a un albero. Inizialmente si pensa al terrore causato dalla ferocia di un orso, poi a un vagabondo maligno, ma non la si dà a bere al pastore Laestadius, e nemmeno al suo giovane protetto, Jussi, un poverello che il tutore religioso della comunità ha accolto sotto la sua ala.
Al lettore colto potrebbe piacere la figura del reverendo, tutta dedita al rigore della forma, coltivatore di citazioni e custode del valore pieno di ogni singola parola; è un discepolo della verità naturale e dunque appassionato di botanica, si muove nel paesaggio scandinavo come una mezza via fra un Darwin onnivoro, perlustratore, o per meglio dire un Linneo – figlio di un pastore svedese e come sappiamo, fondatore della sistematica che ancora oggi regge le classificazioni botaniche – e un Sherlock Holmes in salsa boschiva, per osservare, riflettere, dedurre.

IL LETTORE PIÙ EMOTIVO, invece, potrebbe percepire una certa vicinanza, una empatia per il freak della comunità, Jussi, che gli altri abitanti guardano spesso con compassione: «Porco diavolo, ma guarda chi c’è! Il piccolo noaidi (sciamano) del pastore! Dì un po’, è vero che ti ha trovato sotto un sasso? Proprio così, te ne stavi sdraiato sotto un sasso, come un troll che non sa spicciare nemmeno una parola!», commenta Roope, il garzone dai capelli rossi. E fin qui siamo soltanto alla presentazione dei personaggi, del paesaggio e dei rapporti. Poi la storia imboccherà i sentieri di una favola religiosa, dove il male cercherà di prendere forme umane che la logica dei protagonisti proverà a dipanare.
La lettura di Cucinare un orso può essere accompagnata da una colonna sonora adeguata: ad esempio Chansons des mers froides di Hector Zazou and friends (Sony, 1994).