Alla vigilia della festività musulmana di Eid che segna la fine del ramadan nel mese di maggio di un non meglio specificato anno – che nella nota introduttiva di Neighbours. Storia di un delitto (Fila 37, pp.160, euro 14) l’autrice Lilia Momplé dichiara essere il 1985 -, i destini di cinque mozambicani comuni si legano e mescolano inscindibilmente a quelli del loro paese, uscito da un decennio dall’esperienza coloniale portoghese che lascia ancora pesanti strascichi, ma da allora soggetto alle perniciose intrusioni del vicino Sudafrica razzista.

Il pretesto per mettere insieme questa coralità di voci tra loro sconosciute e storie apparentemente slegate nell’arco di una sola notte, dalle sette di sera alle otto del mattino successivo, è la vicinanza fisica dei tre appartamenti in cui i protagonisti del titolo vivono in un sobborgo di Maputo, microcosmo simbolico, ma al tempo stesso contingente e reale, di una complessa storia nazionale fatta di violenza e corruzione, attaccamento ai valori tradizionali e sgretolamento degli stessi di fronte ad una modernità che, irrefrenabilmente, irrompe e ad una sete di potere che fatalmente corrompe.

È questo il contesto storico-geografico in cui Lilia Momplé cala i  personaggi del suo romanzo, dando loro volti e nomi ben distinti e riconoscibili ma facendoli agire al contempo in rappresentanza di un intero popolo confuso e conteso tra il desiderio di riscatto e autonomia da un lato e la corsa avida e senza scrupoli al vile denaro dall’altro.
In questo turbinio di motivazioni, emozioni personali e nazionali si intrecciano inconsapevolmente i piccoli destini dei protagonisti dell’opera, non solo di quelli potenti e invischiati in loschi traffici, ma anche di quelli che, apparentemente o per loro aperta ammissione, non hanno nulla a che vedere con la politica (ammesso che nel nostro mondo globalizzato qualcuno possa ancora veramente permettersi questo lusso).

Nella prima delle tre case, Narguiss e le sue figlie preparano cibo per tutta la notte ascoltando alla radio di rapimenti e omicidi che ormai non fanno più notizia, mentre nelle loro chiacchiere prospettive di matrimonio, o rifiuti delle stesse, fanno eco alle tristi ma consolidate vicende di mariti adulteri perennemente in caccia di giovani amanti. Dietro la parete, Leia e Januario che si sono finalmente trasferiti nel nuovo appartamento con la figlioletta dopo anni di inghippi burocratici per ottenerlo, in gran parte manovrati da politici debosciati, esemplificano l’esperienza comune a molti africani moderni dello spostamento dalla campagna alla città, spesso forzato da avvenimenti traumatici come l’uccisione violenta di intere famiglie e la distruzione di interi villaggi rurali.

Nell’ultima delle tre case infine, Mena – un tempo la bellezza del suo villaggio – ascolta involontariamente il complotto omicida del marito, che insieme a loschi ospiti stranieri ordisce nel loro salotto una cospirazione per destabilizzare il Mozambico postcoloniale.
La vicenda getta un dissacrante raggio di luce su frequenti atti di terrorismo e sabotaggio orditi da sudafricani senza scrupoli e spesso messi in atto materialmente da mozambicani disillusi, che si lasciano reclutare per un misto di avidità economica, intrinseco razzismo e desiderio di rivalsa e vendetta, aprendo spazi di riflessione più ampia sui temi di identità, mascolinità e maschilismo, di orgoglio nazionale, violenza, razza e razzismo, genere e patriarcato.

In una costante alternanza di scene e personaggi, Momplé mescola passato e presente contrapponendo a fatti tragici ed eventi della storia nazionale, come la guerra coloniale e le violente azioni del Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico), momenti più intimi e memorie più consolatorie, come quella del sontuoso banchetto di nozze di Narguiss, sposa appena sedicenne adorna di magnifici gioielli d’oro massiccio con pietre incastonate provenienti da Zanzibar e perfino dall’India, durante il quale oltre cinquecento invitati furono ospitati per tre giorni e tre notti sotto tende di tela, decorate con arcate di rami di palma intrecciati e corone di fiori di bouganville e di acacia rossa, sfamati con samose e bagias, pani azzimi di grano, riso al cocco e ai fagioli olocos, pesce fritto alla maniera macua, manioca e patate dolci, curry di gambery e granchi ma anche di carne di vacca e di capretto, gallina arrostita alla brace con latte di cocco, zuppa di pesce e di anatra, stufato di foglie di manioca con anacardi, e annaffiati da copiose e dionisiache bevande.

Sul far del giorno, il delitto del titolo ormai compiuto accomuna gli sconosciuti vicini in un’unica sorte, come in una danza macabra delle umane debolezze, di mancanze, passioni, ansie e insicurezze, su cui aleggia la sensazione di costante oppressione ed estrema vulnerabilità del singolo ma anche dell’intera nazione.

Di fronte a forze potenti e ostili, che si abbattono sulla popolazione con furia mortale nei modi più imprevedibili e brutali, si stagliano tuttavia gesti di dimesso stoicismo – attribuiti per lo più a personaggi femminili -, come quello finale di Mena, che ricordano la dignità del popolo mozambicano prima della colonizzazione portoghese e che, nonostante gli ideali traditi e le tradizioni sfaldate, fanno ancora sperare in una qualche possibile redenzione