«Il digiuno era una cosa lenta: lungo come la fame, si dice. Era una porta sprangata. Una fortezza inespugnabile. Digiunare equivaleva a lasciarsi andare, scivolare nel vuoto, e dire no, no e ancora no…». Sono queste poche frasi a rivelare il cuore dell’ultimo romanzo di Emma Donoghue, Il prodigio (traduzione di Massimo Ortelio, Neri Pozza, pp. 301, euro 17,00) giocato interamente su una delle parole chiave della grammatica identitaria d’Irlanda, che spicca per una drammatica evocatività, al tempo stesso contingente e universale: hunger.

A metà del diciannovesimo secolo gli irlandesi attraversarono un periodo noto nei libri di storia come The Great Famine («La grande carestia»), e nell’immaginario popolare come The Great Hunger («La grande fame»).

Fu un quinquennio, quello compreso fra il 1845 e il 49, in cui i raccolti della principale produzione agricola irlandese, la patata, andarono a male per colpa di un fungo micidiale. Ci furono morti d’inedia, migrazioni di massa, malattie e in cinque anni la popolazione irlandese fu letteralmente decimata. Stime apocalittiche parlano di un milione di morti e circa tre milioni di emigrati, su quelle che, secondo un censimento del 1841, erano poco più di otto milioni di persone.

Gli storici si dividono ancora sul grado di colpevolezza dell’Inghilterra, che gravata dal suo potere coloniale e obbediente alla ortodossia del laissez faire agì poco e male, di fatto condannando gran parte della popolazione indigena a venire sterminata. Uno dei più grandi poeti irlandesi del Novecento, Patrick Kavanagh, in un componimento che ha per titolo proprio The Great Hunger scrisse: «Nessuna speranza. Nessuna lascivia. / Il demonio affamato / Urla l’apocalisse della creta / A ogni angolo di questa terra».

Proprio le privazioni e la povertà dell’Irlanda rurale fanno da cornice all’ultima opera di Emma Donoghue, dove si legge di una ragazzina che sceglie di digiunare, motivata da un indicibile segreto familiare. I genitori, in un contesto sociale fortemente influenzato dallasuperstizione e da una religiosità gretta e oscurantista, propongono strumentalmente il suo caso all’attenzione della comunità, come fosse un evento miracoloso, capace di dimostrare che, nell’abbraccio della grazia divina, si può vivere anche senza mangiare.

La storia è modellata, per ammissione della stessa autrice, sui racconti – una cinquantina, sparsi tra le isole britanniche, l’Europa occidentale e il Nord America – delle cosiddette «digiunanti», ovvero bambine o donne (molto più rari i casi maschili), che sembrava fossero in grado di vivere a lungo senza ingerire alcun cibo. In tanti casi venivano sottoposte a sorveglianza da parte di esterni per dimostrare o sconfessare il prodigio: alcune riprendevano a mangiare pur di non perdere la vita, altre arrivavano all’estremo sacrificio.

Sembrerebbe essere questo il caso della piccola Anna, determinata ad arrivare fino alla fine del proprio percorso terreno: non, però, allo scopo di esibire la sua santità, ma per porre riparo a un torto di cui non si deve parlare. A sorvegliarla un’infermiera inglese, decisamente infastidita da una superstizione difficile da neutralizzare. Attraverso la sua figura passa la falsa e spietata dicotomia, tutta coloniale, tra gli spazi di una modernità illuminista e quelli permeati da un sentire più retrogrado e primitivo.

Il romanzo procede mettendo in scena, un po’ meccanicamente, questa contrapposizione per certi versi manichea e fuorviante, fino a prevedere un finale a suo modo miracolistico. Ma il suo interesse non risiede nell’intreccio, persino prevedibile, né nello stile finalizzato a una fluida leggibilità; ciò che più vale è la riflessione antropologica su alcuni tratti tipici della cultura irlandese moderna e contemporanea.

Se è vero che può essere dimostrato lo stretto legame tra la vasta produzione gotica irlandese dell’ottocento e il trauma causato della Grande Carestia, è altrettanto certificabile – basti guardare ai casi degli hunger strikers del 1981, e al relativo pluripremiato film Hunger di Steve McQueen – la dimensione perturbante del digiuno nella composizione sfaccettata dell’identità irlandese.

Il libro è ambientato in un ovest che sa di arretratezza culturale e religiosa, ma che al tempo stesso funziona da ricettacolo e deposito di credenze e antica sapienza cui attingere per modellare un futuro non slegato dalle radici represse del passato. Un passato in cui la lingua autoctona, pressoché scomparsa assieme ai tanti morti e emigrati di metà ottocento, era in grado di esprimere concetti legati alla semantica della nutrizione. Nel dodicesimo secolo, il termine gaelico cuistha indicava un particolare tipo di fame, quella volontariamente sopportata da chi sceglieva di non cibarsi di vivande offerte dal proprio nemico.

Oggi questo archetipo si ripropone nei racconti contemporanei che ruotano intorno alla fame, evidenziando la dual tradition ereditata dalla colonizzazione, con cui l’identità irlandese ancora fatica a fare i conti.