Il 22 giugno scorso Attilio Lolini ci ha lasciato. A un mese dalla sua morte, per lui, per il suo lavorio incessante nonostante l’indolenza e per la sua opera, probabilmente ci vorrebbe una elegia, non una biografia ragionata da epicedio. Una elegia che ricordasse come i suoi versi e la sua instancabile attività per la poesia era qualcosa di più e di diverso dalla letteratura. La persona, l’originalità del porsi, il mestiere imparato chissà dove di tentare il nuovo e collegare chi si misura con il solo spazio bianco della pagina, situavano con lui l’azione della scrittura poetica nel tempo. Dandogli verità e ragione.
È stato così fin da subito. Fin dalla prima volta che lo abbiamo incontrato. Tra i banchetti del «Mercatino della poesia» a Ravenna alla fine degli anni Settanta quando nascevano nuove istituzioni dello scrivere in versi, prima, molto prima, e appena dopo l’evento di Castel Porziano del 1979. Durò molti anni (troppo pochi). C’erano in giro riviste appena aperte, gruppi che si fondavano che istruivano il procedimento del «pubblico e privato» in qualche modo connesso al fare poesia. Non era quello un luogo di elezione, stavamo su Piazza Dante dove c’è la sua tomba, e proprio lì anche di giorno decine di giovani venivano a farsi d’eroina. Si stava come coinquilini, insieme leggendo fra l’unico pubblico che erano i poeti, confrontando le disperazioni. Invitati e ospitati dall’organizzazione estemporanea delle poetesse del «mercatino», condividevano anche le allegrie per le fresche stampe autoprodotte portate come primizie dalla campagna, da Salvo Imprevisti, con Mariella Bettarini e Silvia Battisti, sempre in compagnia di Loredana «Lory» Montomoli, la compagna di una vita Attilio, c’erano quelli di Valore d’Uso, i libretti di El Bagat di Bergamo, poi arrivava anche Gianni D’Elia, il gruppo del nord di Abiti Lavoro guidato da Ferruccio Brugnaro; c’era Cesare Ruffato, e arrivavano anche da Bologna gli ultimi ciclostilati di Roberto Roversi dalla sua Libreria Palma Verde. Lì a Ravenna tra i banchetti esposti con le auto pubblicazioni di fogli, fanzine, riviste, libri, Attilio era l’inconsapevole e svogliato protagonista. Da tutti ricercato perché si avvertiva la forza della sua presa di parola. Era proprio lui quell’Attilio Lolini del quale Pier Paolo Pasolini, recensendo il suo primo libro Negativo parziale del 1974 – con in copertina la sua impronta digitale, pubblicato dalla rivista Salvo Imprevisti – aveva scritto che era un «tardo frutto», «un’assurda fioritura fuori stagione» dell’epoca del Sessantotto. Alto, flaneur, biondastro, furbo, dolce, asciutto come i suoi versi, Attilio scriveva frapponendo l’epigramma sui letterati all’osservazione crudele del presente, mettendo in minuscolo nomi dei «gloriosi». «montale maestro riverisco/ una vita di parole / reazionari autentici/ sono questi/ senatore/ mezzo secolo di nulla/ non è poco»; violento contro l’intronizzazione del poeta, chiamava i suoi versi e non solo i suoi «pietose litanie». Del resto impietoso sarebbe stato anche con Pasolini quando, sul suo assassinio all’Idroscalo di Ostia nel ‘75, scriverà «Meglio così pier paolo/ che vecchietto scacazzante…»- versi che lesse tremolante, con la voglia di fuggire dal palco, in una sera dell’«Ostia dei poeti» a Roma.
Sempre attento al distacco tra tempo della politica che ancora prendeva la piazza e la percezione poetica che prendeva la parola sulla condizione umana, scrivendo: «I poveri come si odiano tra di loro/ egregio ingrao», quel Pietro con il quale avrebbe intrattenuto un importante scambio di lettere che, se tirava dentro ad Attilio nella consapevolezza del tempo, perché «la rivoluzione non era dietro l’angolo/ vanno distrutte anche le rovine», convinceva il dirigente comunista Pietro Ingrao ad entrare nel percorso azzardato dei versi. Attilio sceglieva di accompagnarsi, di mimetizzarsi, di mischiarsi agli ultimi, ai «diversi» e umili, perché «la miseria deve nascondersi bene/ mica le conviene/ uscire alla luce del sole/…nascosta nei ricoveri/ negli spizi/ la miseria è un fiore/ annaffiato dal santissimosignore».
Non so come Siena, la sua città lo abbia ricordato. Se lo ha ricordato. So solo che, con un dolore inenarrabile, non gli mancava mai la riflessione sulle sorti senesi, sul lento decadimento della città oggi visibile a tutti. A leggere i suoi versi già negli anni Ottanta – ed era già chiaro che la poesia italiana più sferzante e satirica, una sorta di mala-poesia, era la sua e valeva la pena metterla in bella evidenza in Veleno, antologia della poesia satirica del 1981 – si poteva capire che quelle mura stavano precipitando. Ingurgitate e digerite dai disastri del potere finanziario che iniziava a consumare ogni insediamento umano. In quella città frequentava l’Accademia Chigiana; le lezioni al’Università di Franco Fortini, del quale diventerà amico e referente appassionato; la scena teatrale e, espertissimo di opera, musicale, per la quale compose testi per lo più ispirati ad una rivisitazione provocatoria dei miti; scrisse libretti per il musicista amico e parente, Ruggero Lolini; attivò una ricerca, nazionale e internazionale su Federigo Tozzi, l’«Italo Svevo senese», diceva. Da Siena stabilì un rapporto stretto con Sebastiano Vassalli rivisitando, in Marradi che nell’88 uscì per le Edizioni dell’Obliquo, il massacro che la società letteraria aveva fatto di Dino Campana. Ma soprattutto da Siena, e poi dal vicino ritiro di San Rocco a Pilli, praticò una promozione della poesia che non ha pari e che solo i diari scritti con amore da Lory Montomoli, potranno alla fine testimoniare. Quasi un esempio di come, in disparte e mantenendo l’asse della scrittura secca e distaccata, sia possibile lavorare anche per gli altri. In primo luogo avviando nel 1979 la pubblicazione di Barbablù, circolare di poesia-rassegna di originali: proprio così, bisognava inviare 59 esemplari originali e firmati, che poi venivano collezionati in altrettante copie; durò credo tre o quattro anni e ora è un giacimento, appunti di originali, spesso scritti a mano, straordinario, che vide la partecipazione di tanti poeti, da Roversi a Di Ruscio, da Fortini a Magrelli, da Viviani a Giovanna Sicari, a Carlo Villa e Lamberto Pignotti. Gli ultimi numeri furono a tema, ma il primo aveva come indicazione del progetto la sua «inutilità». È di questo periodo la scoperta, la traduzione e la proposta del poeta e filosofo francese Edmond Jabès. Poi la partecipazione, insieme ad Antonio Prete che condivideva con lui le sorti e i dolori senesi, della rivista di poetica Il gallo silvestre, titolo ispirato all’operetta morale di Leopardi. In redazione con Enzo Di Mauro, e con le prime «stanze» di Antonella Anedda .
Alla fine, come fosse un monumento non ricercato – Attilio non amava la rincorsa dei poeti a farsi il monumento in vita – Einaudi nella collezione bianca si accorse di lui e ripubblicò nel 2004 e in veste ampliata Negativo parziale, e infine nel 2013 il bellissimo, prezioso, e più conosciuto, Carte da sandwich. Scandito in sei sezioni, che già nel titolo sembra indicare, pintorianamente (il giornale quotidiano che il giorno dopo serve per incartare il pesce), l’uso più appropriato dei foglietti che contengono versi. Ma non è però il cantore nichilista della «peccaminosa» pigrizia e accidia, della improduttiva negligenza. Non ci troviamo di fronte ad un Oblomov della provincia italiana, bensì ad un grande interprete del disincanto, crudele fin dall’esergo che apre il libro: vecchi attivi/ l’odio ci fa vivi. Disincanto nei confronti della realtà, anche storica, nonché dello stesso strumento della poesia che il poeta non salva nell’azzeramento generale che propone. Ma questa non è come erroneamente ricordato da molti, la sua ultima opera. Tre anni fa infatti, nel dicembre 2014, pubblicò (vergando nella dedica «Rieccomi, Attilio») l’ ultima plaquette di 77 pagine, Bestiario Gotico, che è stata anche, purtroppo, l’ultimo libro pubblicato dalle edizioni L’Obliquo. Una punta alta del distacco critico dal mondo, della maledizione in versi, una metamorfosi dei sensi e del tempo per costruire-denunciare una «favola nuova». Dove arriva ad ammettere «Confessa che hai odiato/ i buoni e i cattivi». E dove annuncia, tra le altre perle, un lascito irriverente: «Né bello né brutto/ alla fine la nebbia/ ha coperto tutto/ in questo pianeta/ stavano da anni/ a dieta/ avevano rosicato tutto/ così il vecchio mondo/ finì con un rutto».