Una donna-medusa. «Kindil El Bahr, in arabo classico, corrisponde letteralmente a «lanterna di mare», ossia medusa», ci racconta Damien Ounouri, regista algerino classe 1982. Sua prima opera di finzione, Kindil (tra i lavori precedenti, Xiao Jia rentre à la maison, documentario-ritratto su Jia Zhang-Ke che gli ha poi prodotto il successivo Fidaï), presentata quest’anno alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e in anteprima italiana all’ultima edizione del MedFilm Festival di Roma (4-12 novembre) dove ha vinto il Premio speciale della giuria. In quaranta minuti di film, la gita al mare di una giovane donna, Nfissa (Adila Bendimerad), accompagnata dai due figli e da sua madre, termina in tragedia: allontanatasi da sola dalla riva per fare un bagno, viene molestata da un gruppo di uomini che alla fine la annega. Suo marito (Nabil Asli) la cerca, grida il suo nome, non si capacita. Ma lei presto tornerà in forma di creatura marina mortifera e vendicativa. Kindil è una trasformazione, movimento tra reale e onirico, tra la profondità e la superficie, il mare e la terra; un horror e una storia d’amore. È sorprendente cinema politico, soprattutto.
Come nascono l’idea e il mondo di Kindil, che vede Adila Bendimerad non solo protagonista del film, ma anche al tuo fianco nella sceneggiatura?
La genesi del film contiene più tracce, ma il punto di partenza lo ha segnato proprio Adila che è stata molto provata dal linciaggio e dall’assassinio di una giovane afgana, Fakhunda, da parte di una folla a Kabul l’anno scorso. Ne ha discusso con l’artista Adel Bentounsi e con me, e allora ci siamo interrogati sulle molestie negli spazi pubblici del nostro Paese, l’Algeria. Ciascuno ha ricordato le proprie esperienze. Adila desiderava girare una performance di danza sott’acqua in spiaggia; mentre Bentounsi aveva in mente una performance che consisteva nel far circondare una donna in mare da un gruppo di uomini, e alla fine, di questa donna annegata, non restava che un suo vestito a fluttuare come una medusa. Da qui è nata l’idea definitiva di Kindil.
Gli istanti che precedono l’entrata in acqua di Nfissa sono tra i più belli del film: una sorta di misterioso richiamo. Perché ci va?
Il personaggio di Nfissa è già una pre-creatura, ma noi non lo sappiamo. Entra in acqua, supera la frontiera, il limite «interdetto», e prende il largo. Ama l’acqua, è il suo elemento, lo si percepisce da come nuota. Lì si rilassa, e quando un corpo si rilassa la sensualità scaturisce; succede questo a Nfissa prima che una tempesta di frustrazione si abbatta su di lei. Ma un’altra interpretazione possibile è che lei in acqua non ci sia mai entrata e che quel che capita dopo è forse un sogno. O un incubo.
Per te cos’è il mare?
Noi lambiamo il mare tutti i giorni, vivendo ad Algeri, quindi influenza anche i nostri stati d’animo. Amo il mare, il suo contatto, la sua vista, l’immaginario che mi suscita. Una potenza, una bellezza, un mistero, qualcosa di sacro. Poi è stata Nfissa che ci ha portato laggiù e noi l’abbiamo seguita».
C’è, come linea che attraversa il film, un dialogo amoroso costante tra marito e moglie in voci fuoricampo: in quale dimensione temporale si svolge?
C’è, effettivamente, in questo dialogo di coppia una confusione di tempi e livelli di realtà: alcune cose che sono state dette nel passato, parole che potrebbero dirsi dopo l’amore, ma anche cose che avrebbero voluto dirsi ma che ciascuno ha tenuto per sé, parole che sgorgano alla scomparsa dell’essere amato, che si dicono dopo la morte, come delle voci d’oltretomba che guardano da lontano una vita strappata.
Una donna abusata e poi assassinata che ritorna per vendicarsi. Quale è la condizione delle donne algerine oggi?
Sono molto attive: lavorano, studiano, occupano posti importanti. Ma esiste sempre questo codice familiare, che molti algerini chiamano «codice di infamia», assai ingiusto nei confronti delle donne. È triste, ma le donne sono molto infastidite nelle strade, soprattutto delle grandi città, subiscono ancora violenze verbali e fisiche per la sola ragione di essere donne.
Quanto della storia, della cultura, della mitologia d’Algeria c’è in Kindil?
Il Paese del film non esiste precisamente, ma somiglia stranamente al nostro mondo. È quasi un’esperienza filosofica, Kindil. Cesarea, città e provincia del nostro film, è il nome antico dell’attuale città algerina di Cherchell: una regione all’Ovest di Algeri con rovine antiche, romane. Una terra di vulcani e di mare allo stesso tempo. Abbiamo voluto ispirarci sia alla mitologia greca della Medusa che alla leggenda delle Orchesse, donne ingiustamente bandite dalla società che si ritirano a vivere nei luoghi selvaggi, ai margini della società.
Alla fine la donna-medusa viene catturata, uccisa, esposta pubblicamente in piazza, su una fontana.
L’esposizione finale del cadavere è oscena, o meglio, esibisce l’oscenità del mondo. I media, i selfie, il linciaggio mediatico del capro espiatorio, la viltà. Il movimento «donne Kindil» si moltiplica nei paesi vicini ma le autorità di Cesarea vogliono rassicurare. Espongono il cadavere per dissuadere chi vorrebbe diventare come lei. La sequenza finale è ispirata dal decennio di terrorismo in Algeria: quando i primi terroristi venivano catturati negli scontri con l’esercito, accadeva che i loro corpi venissero gettati agonizzanti nelle fontane delle piazze pubbliche di certe piccole città o villaggi, dove molti giovani avevano aderito alla jihad. Dicevano che facevano questo per dissuadere i più giovani dall’unirsi ai terroristi.
Qual è la situazione del cinema algerino oggi?
La situazione del cinema in Algeria è nello stesso tempo ricca e stimolante, ma anche molto complicata. L’economia del cinema è praticamente inesistente: abbiamo grossi problemi di finanziamenti, manca sostegno da parte dello Stato, e quando si hanno i soldi, mancano i produttori, i tecnici. C’è poi un’assenza di scuole di formazione, le sale sono poche e non c’è nessuna distribuzione per il cinema cosiddetto «indipendente». Ma, accanto a tutto questo, ci sono degli attori meravigliosi e delle storie fantastiche da raccontare.