La coppia è stabile, anzi «di fatto» come si divertono a rimarcare Gino Paoli e Danilo Rea che arrivano al secondo capitolo discografico per solo pianoforte e voce. Formula rischiosa se non si dosano bene gli elementi – il rischio agiografico è sempre dietro l’angolo – soprattutto se la scelta cade sul repertorio napoletano. E invece la magia si rinnova, e aldilà della copertina (questa sì bruttarella assaje…) Napoli con amore (Parco della Musica/distr.Egea, in uscita il 4 novembre) è una rilettura di pagine storiche, le potremmo quasi definire i veri standard della musica italiana, fatte da uno dei pianisti più duttili della scena italiana (e non solo) e l’ex cantautore maledetto che con l’età si è ritrovato una voce carismatica, azzarderemmo quasi da crooner, che lo rende assolutamente credibile anche affrontando brani come Luna Rossa, Era De Maggio, ’O Sole mio, ascoltate in mille versioni diverse.

La ragione, spiega Paoli: «È la vicinanza tra Napoli e Genova. Quella napoletana è stata l’ultima canzone autorale – cioè con significati espressivi, non come canzone ipnotica per dormire o ballare, ma con un contenuto. Le ultime erano napoletane, poi siamo arrivati noi i genovesi. E poi c’è una sorta di cuginanza filosofica tra me e i napoletani, quella dolce anarchia che mi corrisponde molto. E che corrisponde anche ad altri come Tenco, Lauzi. Poi c’è chi lo fa per business, ma è un’altra cosa». La scelta dei quattordici pezzi finiti nella raccolta, in realtà, è stata affidata a Aldo Mercurio, musicista arrangiatore e produttore di Paoli, soprattutto: «Il nostro chaperon. Siamo andati in studio e abbiamo inciso 50 pezzi mettendoci due giorni, e buona la prima perché funziona così tra Danilo e me» «Se a Aldo non piace una cosa – sottolinea ridendo Rea – basta un suo sguardo…».

L’idea centrale dell’intero lavoro è che i testi vadano interpretati, non urlati: «La nostra idea di canzone è intima e quindi sparare le note in maniera retorica non funziona, assolutamente». A codificare il giusto modo di porgere il canto della tradizione partenopea: «È stato Sergio Bruni, e io – è ancora Paoli – come riferimento ho tenuto presente proprio lui. «La magia di questo duo – spiega Rea – è che entiamo una simmetria totale. Io non accompagno Gino, ci intendiamo e portiamo avanti la canzone. Così io lavoro solo con Mina, c’è un’intesa immediata e una rapidità di esecuzione. Un take, al massimo due». Un sottile filo che sposta queste interpretazioni verso il jazz: «Può essere – spiega Paoli – perché il jazz a mio modo di vedere è affrontare qualsiasi tema secondo se stessi, senza prendere in considerazione dogmi. Un paradosso: Glenn Gould che ha fatto Beethoven lo ha eseguito in maniera personale, e secondo me stava facendo jazz…». Paoli interprete, ma sente ancora con la necessità di scrivere brani nuovi: «Non mi sono affatto stancato di scrivere canzoni. In realtà non ne ho scritte mai tantissime, tra l’una e l’altra sono passati anche anni. Quando compongo non lo faccio per il mercato, scrivo se ho urgenza di farlo, quando sono utili».

Secondo molti, De Gregori è fra questi – ha speso belle parole su Fabri Fibra, l’erede della tradizione cantautorale è l’onda rap italiana. Dissente Rea. «Sto lavorando su un progetto, ma arrivato al punto di dover citare pezzi degli ultimi dieci anni, non ho trovato nulla. Anche Quincy Jones ha detto che il rap è il futuro, ma non sono d’accordo. Io ho provato ad improvvisare su un pezzo di Eminem, che fra l’altro mi piace molto, ma non ci si riesco. Come diceva Sonny Rollins, se vuoi improvvisare deve esserci una traccia melodica da seguire». E Paoli ribadisce: «Non sono contrario alle novità è che nella musica moderna il tecnicismo ha preso talmente piede che spesso è più forte dell’intenzione. Mi spiego: non è più l’artista ad usare il mezzo ma è il mezzo che costringe l’artista ad essere in una maniera. Se riduci la musica a uno sterilismo algido, le cose cambiano. Totalmente».