Quando, mercoledì pomeriggio, è arrivata la notizia della chiusura, sulla società civile è calato un velo: incredulità, smarrimento, sospensione. Ci è stato subito chiaro che dovevamo fare qualcosa per tenerci i ragazzi: non per non perdere tempo, ma per non perdere il legame con loro: il maestro, ci insegna Socrate nel Simposio, è colui che incarna il sapere, ed è tale se è presente, se porge al discente e porta, con la sua vicinanza, contenuti, lessico e metodi peculiari della sua disciplina. Forte della lezione platonica e di anni di esperienza, ho sentito e pensato di avere ancor più responsabilità: come membro di una comunità in difficoltà, quella di non aiutare il virus a propagarsi; come insegnante, quella di restare vicina ai ragazzi.

NON APPENA, quindi, è arrivata la notizia della chiusura delle scuole – decisione inaudita nella storia della scuola italiana – la mia prima azione didattica è stata quella di inviare ai ragazzi un messaggio su whatsapp, perché so che, al di là delle manifestazioni di apparente gaudio per le «vacanze», anche i giovani si sentono smarriti, separati da inedite esigenze di salute pubblica dal gruppo dei pari e dai loro adulti di riferimento, siano essi nonni, zii, docenti, allenatori.

Oggi più che mai la tecnologia è chiamata ad alleviare il senso di solitudine e di pericolo; la connessione perpetua, ho pensato, se ben usata può essere non fonte di ansia, ma espressione di vicinanza e solidarietà. Così, ho scritto loro che eravamo costretti a rinunciare alla socialità e alla vita quotidiana, a stare distanti, per proteggere gli anziani, i fragili, praticando nei loro confronti comportamenti di cura e attenzione; gli ho chiesto, nell’attesa che passi questa tempesta, di rimanere concentrati e motivati, perché al rientro ci aspettano due mesi densi che dobbiamo far fruttare – metafora scelta con cura.

Nel frattempo, era fiorito il confronto fra colleghi: nella scuola italiana c’è ancora poco digitale, tutto o quasi è affidato all’iniziativa e agli interessi personali, nonostante i numerosi corsi del Piano nazionale scuola digitale della legge 107. Così io, che insegno latino e greco nel biennio di un liceo storico di Roma, ho riattivato il mio account Skype, chiesto ai ragazzi di fare altrettanto, cominciato a registrare lezioni in video e audio.

Poi ho saputo che Meet di Classroom funziona meglio, e ho trascorso la domenica a creare le due classi virtuali. Così, ho fatto le mie prime lezioni in videoconferenza: avevo assegnato loro esercizi di traduzione, li abbiamo corretti insieme come facciamo a scuola, mi hanno sottoposto le loro domande; il tutto secondo il mio consueto orario di servizio, per mantenere il senso della comunità anche e a maggior ragione in questo momento di confusione e smarrimento.

SIAMO COME LA BRIGATA del Decameron, e i nostri appuntamenti quotidiani serviranno a imporre il kosmos ordinato degli uomini al chaos della Natura. Stare insieme per raccontare e, come ci insegnano Boccaccio e Sherazade, per salvare le vite: quelle dei fragili più esposti al virus, le nostre, strappate alla quotidianità e a rischio di perdere l’auto-disciplina e la ricorsività che sole ci assicurano di apprendere: non per diventare “teste ben piene, ma teste ben fatte” (Edgar Morin).

Qualcuno paventa l’anti-sindacalità, i rischi connessi all’inesperienza, addirittura la pericolosità della biopolitica. Per me contano il senso di appartenenza, la serietà, la consapevolezza che ho letto negli occhi dei miei studenti: oggi i compiti li avevano fatti tutti, malgrado sia lunedì.