La Resistenza ha avuto, latenti, molti nemici e di ben scarso onore, parafrasando una delle perentorie vacuità mussoliniane, nei molti decenni in cui si sono depositate memorie personali e storia collettiva. Da una parte e dall’altra, quindi non solo da dove è ovvio attendersi attacchi, una destra becera e tanto più sguaiata, nelle argomentazioni, quanto più assetata di normalizzazioni (pseudo)storiche. E neppure si allude, qui, al tardivo «pentimento» di chi all’improvviso ha scoperto che in guerra, e soprattutto nelle guerre che contemplano una resistenza a un nemico feroce, c’è violenza, anche ai danni dei superuomini di ieri e «vinti» del giorno dopo. È come se su certi aspetti della Resistenza fosse meglio lasciare un cono d’ombra, perché a scoperchiare certi inferni in terra dove persone normali e coraggiose seppero dire no salta il castello di carte delicato delle retoriche ben definite, che avevano chiuso il discorso, apparentemente, una volta per sempre. Ecco allora la vulgata di una Resistenza incardinata sul modello del partigianato di montagna, oppure, e già in misura assai minore, su quello dei Gap cittadini.

Si tratta di riconsiderare dunque quali e quanti apporti di microstorie resistenziali raccontate con la perizia degli storici siano da mettere in conto sulla cesura dell’8 settembre, che non fu solo lo sbando puro dei «milioni di baionette» di Mussolini. E non fu neppure solo la storia di due esiti speculari e opposti, la divisa mortifera dei cosiddetti «ragazzi di Salò» o la via delle montagne con le «scarpe rotte». Ci fu ben altro, e ci furono altre Resistenze. Quella delle donne, mai indagata abbastanza, quella di chi andò a combattere con il Maresciallo Tito, di cui molto ha ben scritto Giacomo Scotti, quella dei soldati italiani trovatitisi all’improvviso in patria con ordini contraddittori ed ambigui, e che ebbero ben chiaro dall’inizio un fatto: tradire il proprio Paese era continuare a dar manforte a i nazisti, non il contrario.

La deportazione dei militari
Centinaia di migliaia di italiani in divisa che si ritrovano in Germania, milioni di famiglie che restano ad aspettare una qualche notizia, una repubblica fascista arroccata nel Nord che si è autodefinita «sociale», e che tutto tenterà, nel precipitare sempre più luttuoso e tremendo della guerra, per convincere quei soldati a passare dalla parte del fascismo sotto tutela hitleriana. Con scarsi esiti: di 710 mila deportati militari nei lager, solo 103 mila, volta per volta, sceglieranno la via della collaborazione con tedeschi e repubblichini, diventeranno, come dice il gelido gergo burocratico «optanti». Per togliersi dall’inferno.

Gli altri no, schiena dritta tra umiliazioni, lavoro forzato e sempre rifiutato, botte e privazioni al limite dell’umano. 57 mila morti. Imi, la sigla che li identifica: internati militari Italiani. Dunque né soldati, né deportati. E neppure sottoposti alle Convenzioni di Ginevra. Un ibrido giuridico mostruoso con cui Mussolini spera fino all’ultimo di poter dare fresca carne bellica all’alleato sempre più inferocito e disperato, e di conseguenza alla sua repubblica «sociale». Alle testimonianze di Alessandro Natta (non pubblicate per decenni: le retoriche in azione di cui si diceva, ed anche ad opera dell’editore di riferimento del Partito comunista italiano) ed a quelle, opposte e complementari, del conservatore Guareschi, affianchiamo oggi quelle di un altro Imi ufficiale italiano, il sottotenente Giovanni Borzani, giovane ingegnere prigioniero ad Alessandria. Che Natta e Guareschi ebbe accanto e ben conobbe, nell’inferno concentrazionario nazista fatto anche di penosi trasferimenti da un campo all’altro, in condizioni via via peggiori. Lui ne sperimentò sette, da Sandbostel, settembre ’43, a Wietzendorf, maggio ’45.

Esce ora per i tipi del Melangolo La guerra di mio padre (pp. 180, euro 16), prezioso tassello di microstoria inquadrata perfettamente nella vicenda macrostorica complessiva ad opera di Luca Borzani, figlio di Giovanni, storico sociale. Chi pensasse, da subito, che le parole di un figlio possano adombrare anche solo un sospetto di sdilinquimento emotivo può subito ricredersi: tanto più le vicende degli scritti di prigionia di Giovanni Borzani sono toccanti e crude, peraltro filtrate da un ufficiale che non ama il pietismo neppure per se stesso (il fratello prigioniero ad un certo punto sarà invece «optante»), tanto più la penna del figlio marca fatti, eventi, dati con crudo, gelido nitore di storico abituato ad affiancare ai fatti di testimonianza altre testimonianze, sì da cogliere sempre il riverbero collettivo, la polifonia di voci di vicende altrimenti e inevitabilmente personali. Solo in un caso traspare una dolente e privatissima memoria, del tutto funzionale al racconto, quando Luca Borzani in pochi tratti così dà senso al proprio ricercare in quelle carte ritrovate dopo la morte recente del padre Giovanni in una sacca cucita con tela militare e mai viste prima: «E nel desiderare di incrociare gli occhi del padre giovane, il figlio risente il peso di quando, con improvviso rovesciamento dei ruoli, si era trovato ad essere padre di un padre ritornato, per l’età e la malattia, fragile ed incapace di muoversi da solo nel mondo».

I lager degli ostaggi involontari
La via crucis a testa alta di Giovanni in mezzo ai tedeschi è la storia avvincente di una fetta di gioventù italiana che ritrova una dignità. La generazione che non aveva mai potuto scegliere, tenuta a bagnomaria nelle pastoie di una folle burocrazia militaresca impara la Resistenza quotidiana nel gelo fetido del lager. E poi riescono a tornare a casa, in tanti, e tra loro Giovanni, ma «per loro non ci sono attestati o benemerenze. Anzi sono circondati da indifferenza e fastidio. Stranieri in patria. (…) Si sentono, e in qualche modo lo sono davvero, gli ultimi involontari ostaggi di una guerra senza memoria e senza narrazione pubblica. Una guerra che l’Italia antifascista rinnega e che larga parte degli italiani aspira a dimenticare».

Scrive ancora Luca Borzani: «Dei giorni trascorsi nei lager Giovanni Borzani non ha mai raccontato. Tutta la documentazione, di cui si ignorava l’esistenza, è stata ritrovata dopo la sua morte, il 12 giugno 2008. La cura posta nell’ordinare e conservare i ricordi della prigionia ne fanno una sorta di lascito a futura memoria. Di certo per lui non raccontare non aveva voluto dire dimenticare».