Il maestro indiscusso rimane Elia Kazan, il personaggio prediletto Bonnie di Gangster Story di Arthur Penn, l’attore indimenticabile con cui ha lavorato, naturalmente Marlon Brando. In fondo è sempre la ragazza spavalda, anche quando fragile e segreta come la Evelyn Cross Mulwray di Chinatown, con le gambe lunghissime e il tocco naturalmente glamour pure se in fuga sulle strade della Grande Depressione.

Basta un attimo e la sala si illumina quando entra Faye Dunaway, tutti in piedi a applaudire e lei con candore: «Adoro il pubblico, fate fotografie, chiedete un autografo», è il bello del suo lavoro. E ama raccontare, parlare di cinema, dei film che ha fatto, di quelli che ha visto, della sua passione cinefila per gli autori europei – «Ho studiato tutti i film di Bergman e di molti altri. Il cinema è la forma di arte visuale più affascinante del XX secolo ». Degli incontri, degli attori con cui ha lavorato, dei suoi personaggi. Conversatrice brillante con la capacità dei grandi divi, soprattutto hollywoodiani di infondere alla propria esperienza quella nota letteraria che la trasforma in un’avventura unica, Faye Dunaway ha in più il gusto per un umorismo ruvido che le permette di porre dei limiti ferrei col sorriso della battuta. Un po’ stanca, il jet-leg, ogni tanto perde il filo del discorso: «È colpa della vecchiaia» ride non senza civetteria.

«Sono stata fortunata, ho scelto i ruoli da interpretare affidandomi al mio istinto che non ha sbagliato mai. Forse anche grazie al boss che sta in cielo, sapete, sono cattolica, sono riuscita a afferrare le mie intuizioni. Non è facile, molte mie colleghe sono state penalizzate da scelte sbagliate. Un esempio? Sharon Stone, è un’attrice formidabile ma ha fatto scelte artistiche non sempre giuste, chissà se ha ascoltato poco il suo istinto …». Rimpianti lei non ne ha, risponde energica quando qualcuno glielo chiede. E guardando la sua carriera a ragione: ha lavorato con grandi registi, vinto molti premi, l’Oscar per Quinto potere di Lumet, e soprattutto, come ci tiene a dire, ha fatto tutto quanto le piace.

Adesso sta finendo il suo film da regista, Master Class, a cui sta lavorando da diversi anni, ispirato alla figura di Maria Callas, un’artista che Dunaway ammira moltissimo, e di cui ha più volte interpretato la vita a teatro. «Ho comprato i diritti della pièce a mie spese, volevo scegliere ogni dettaglio in piena autonomia, i collaboratori, la troupe.Abbiamo scritto il film insieme all’autore Terrence McNally (che per il drama si è anche portato a casa un Tony Award), non volevo finire nel sistema degli studios che tendono a imporre le proprie scelte e i propri tempi. Io invece per raccontare questa donna meravigliosa voglio poter avere il controllo di ogni dettaglio, voglio essere io a scegliere il film. Maria Callas è stata un’icona, e ha lasciato un segno profondo nell’arte, non solo nel canto.

Aveva un modo speciale di parlare, un suo idioma americano, una fisicità unica, un modo di interpretare sul palcoscenico che non si era mai visto prima di lei. Poi ha incontrato Onassis, e ha abbandonato il canto, e tutto, cosa che dimostra come l’arte e la vita spesso diventino inconciliabili. La sua è stata un’esistenza tragica, ma quando la rivedo sul palcoscenico è come se tutto si cancellasse. E il mio film cerca di mettere a fuoco soprattutto questa relazione tra arte e vita, e su come la dimensione personale sia sempre presente in quella artistica, della creazione, perché non può essere diversamente».

Parliamo di Bonnie Parker, l’eroina di Gangster Story (1967), tra i titoli di punta della Nuova Hollywood. «C’erano molti aspetti personali in comune con quel personaggio, era nata nel sud dell’America come me, e esprimeva un certo modo di essere, quello stato di movimento continuo che non porta da nessuna parte che apparteneva anche alla mia generazione. Bonnie e Clyde vivono gli anni della Grande Depressione, lei è una giovane donna piena di stile, brillante, in sintonia col suo tempo… Penn era un regista pieno di talento, che lavorava in modo inedito per quel periodo. E poi c’era Warren Beatty, attore meraviglioso, perfezionista, instancabile, poteca ripetere una scena anche trenta volte».

, anzi bisogna portarla dentro al personaggio, come un background che lo rende emozionalmente vivo, mantenendo un registro naturalistico che è al tempo stesso capace di sorprendere. Non a caso è stato il riferimento per più generazioni di attori. Ha scoperto Brando e tanti altri… Poi le questioni politiche hanno compromesso la sua immagine, non voglio giudicare, ma al di là di questo rimane la sua grandezza nel lavoro con gli attori».[do action=”citazione”]E Kazan, col quale ha girato Il compromesso (1969)? «E stato un maestro, quando ho lavorato con lui ero agli inizi, ma è stato un incontro importantissimo. Ho imparato che per capire un personaggio insieme alla sceneggiatura si deve usare la propria esperienza[/do]

Brando è invece un capitolo a parte. «Cosa posso dire?Un attore straordinario e un uomo meraviglioso, talmente vitale e imprevedibile, era capace di scendere da una limousine in accappatoio. Ha inventato un modo di recitare per gli attori del nostro tempo, era capace di non perdere mai il contatto col suo personaggio aggiungendovi man mano qualcosa».

«Nella mia esperienza lavorare è stato molto importante. È per questo che ai giovani attori, a chi comincia oggi questa professione dico di fare, studiare non basta, si deve lavorare sui set, e a teatro, dove si cresce e si impara moltissimo ripetendo ogni giorno infinite volte sul palco». E se potesse cambiare qualcosa del mondo cosa cambierebbe? «Visto che non possiamo cambiare la natura umana e neppure il mondo, mi piacerebbe che imparassimo a essere tutti un po’ più gentili e rispettosi con gli altri».